domenica 10 agosto 2014

IL MISTERO E L’ORRORE DELL’INCIDENTE DEL PASSO DJATLOV

Nel mondo ci sono molti luoghi geografici su cui aleggia uno strano senso di mistero e che suscitano stupore e paura. Su questi luoghi si tramandano racconti enigmatici che sfidano la logica e la normale comprensione umana delle cose. Basti pensare al Triangolo delle Bermuda e al Mar dei Sargassi. Ma se si dovesse stillare una classifica dei luoghi più strani, certamente i Monti Urali della Russia figurerebbero tra i primi posti.

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Gli Urali, come noto, formano la catena montuosa che si estende dal nord a sud della Russia occidentale.
Il massiccio roccioso si estende per migliaia di chilometri, a partire dalla costa del Mar Glaciale artico a nord, fino ai confini del Kasakhstan a sud. Dal punto di vista geofisico, gli Urali rappresentano il confine settentrionale tra i continenti di Europa e Asia.
Come molte altre regioni montuose, le tradizioni locali tramandano gli Urali come scenario di strane storie e misteri. Uno degli ultimi avvenimenti, forse il più enigmatico, è accaduto nella zona del Passo Djatlov appena 55 anni fa.
A metà del mese di gennaio dell’anno 1959, un gruppo di giovani sciatori intraprese un’escursione sul Kholat Syakhl, uno dei monti degli Urali settentrionali, comunemente noto come la “Montagna Morta” (nel dialetto locale Mansi, il nome Kholat Syakhl significa Montagna Morta, riferendosi alla totale mancanza di fauna selvatica).
Il gruppo, guidato da Igor Djatlov, era composto inizialmente da otto uomini e due donne, ma uno dei membri, Yuri Yudin, si ammalò e fu costretto a tornare indietro. La maggior parte di loro erano studenti e neolaureati dell’Istituto Politecnico degli Urali . Tutti i membri della spedizione avevano alle spalle esperienza sia di lunghe escursioni sugli sci che di spedizioni di montagna.
I nove avevano come obiettivo quello di raggiungere a piedi le pendici dell’Otorten. I diari e le macchine fotografiche ritrovati attorno al loro ultimo campo hanno reso possibile ricostruire il percorso della spedizione. Il 27 gennaio si misero in marcia da Vižaj verso l’Otorten. Il 31 gennaio il gruppo arrivò sul bordo di un altopiano e iniziò a prepararsi per la salita.
Il giorno successivo, il 1° febbraio, gli escursionisti cominciarono a percorrere il passo. Pare che avessero progettato di valicare il passo e accamparsi per la notte successiva dall’altro lato, ma a causa del peggioramento delle condizioni climatiche, che scaturì nell’inizio di una tempesta di neve, la visibilità calò di molto e persero l’orientamento, deviando verso ovest, verso la cima del Cholat Sjachl.
Quando capirono l’errore commesso, decisero di fermarsi e accamparsi per la notte sul pendio della montagna che avevano raggiunto, in attesa del miglioramento delle condizioni climatiche. Quello che avvenne quella notte non si è mai saputo con precisione, ma a giudicare dalle conseguenze, qualunque cosa fosse, si scatenò un vero e proprio inferno.
Il gruppo aveva concordato che non appena fossero rientrati a Vižaj, Djatlov avrebbe comunicato via telegrafo con la loro associazione sportiva. Gli escursionisti avevano stimato che ciò non sarebbe accaduto più tardi del 12 febbraio. Quando passo quel giorno, nessuno reagì alla mancata comunicazione, dato che un ritardo di qualche giorno in simili spedizioni era una cosa piuttosto normale.
Bisognerà attendere il 20 febbraio perché si organizzi una spedizione di soccorso, quando il capo dell’associazione mandò il primo gruppo di soccorso composto da studenti e insegnanti volontari su richiesta dei parenti degli escursionisti. Successivamente, vennero coinvolti anche la polizia e l’esercito, ai quali fu ordinato di partecipare alle ricerche con aeroplani ed elicotteri.
Quando il 26 febbraio fu trovato il campo dei giovani escursionisti, i soccorritori si trovarono davanti ad una scena inquietante: la tenda sembrava intatta nella struttura, ma la stoffa sembrava fosse stata strappata dall’interno, come se fosse stata danneggiata dagli occupanti in fuga.
“Scoprimmo che la tenda era mezza demolita e coperta di neve. Era tutto vuoto e tutte le attrezzature e le scarpe del gruppo erano al suo interno”, racconta a distanza di anni il signor Sharavin, uno dei soccorritori. Ma dove erano finiti i nove studenti che avrebbero dovuto rifugiarsi sotto la tenda?
Cercando nella neve, i soccorritori scoprirono una serie di impronte lasciate apparentemente da almeno otto persone in fuga dalla tenda devastata. Presto ci si rese conto che le tracce erano state lasciate da persone in fuga a piedi nudi o con una sola scarpa. Cosa a potuto spingere gli occupanti della tenda ad avventurarsi senza scarpe nella neve ad una temperatura di -24° C?
Due serie di orme si dirigevano giù per un pendio, verso una zona densamente boscosa. Sharavin seguì le orme, quando si imbatte in una scena raccapricciante: i corpi congelati di due membri del team, entrambi nudi e scalzi, tranne che per la loro biancheria intima.
Le successive indagini forensi rivelarono che tracce di pelle furono rinvenute nella corteccia degli alberi circostanti i corpi, indicando che i due avevano tentato freneticamente di scalare l’albero, come se volessero fuggire da qualche imminente pericolo.
Gli investigatori si sono chiesti quale “bestia” possa aver spaventato i due al punto da abbandonare i loro vestiti nonostante il freddo gelido e strappare la pelle delle loro mani in un disperato tentativo di mettersi in salvo. Il fatto che non ci fossero tracce evidenti di animali, unito al fatto che i cropi erano praticamente intatti, non ha fatto altro che aumentare lo sconcerto degli investigatori.
Tra gli alberi e la tenda furono trovati i corpi di altri tre escursionisti, tra cui quello di Djatlov. I corpi erano lontani l’uno dall’altro, rispettivamente alla distanza di 300, 480 e 630 metri dagli alberi. Il corpo di Djatlov fu trovato sulla schiena: con una mano si era aggrappato ad un ramo di betulla , mentre con l’altro braccio sembrava proteggersi la testa da qualche aggressore sconosciuto.
Gli ultimi quattro escursionisti furono cercati per più di due mesi. Vennero infine ritrovati il 4 maggio, sepolti sotto quattro metri di neve in una gola scavata da un torrente all’interno del bosco.
Era chiaro che i membri della spedizione erano morti tutti per ipotermia, ma le indagini successive sollevarono una serie di domande, alle quali non fu possibile dare altrettante chiare risposte: perchè i ragazzi avevano lasciato il calore e la sicurezza del loro rifugio? Perchè si sono avventurati all’esterno senza il loro abbigliamento e le scarpe? E perchè non hanno tentato di recuperare la loro attrezzatura dopo aver lasciato il campo?

L’indagine, le polemiche e le domande senza risposta

Le prime autopsie eseguite sui cadaveri complicarono molto il quadro generale: le analisi rivelarono che due dei membri del gruppo avevano i crani fratturati, e altri due, tra cui una delle donne, avevano la gabbia toracica gravemente fratturata. Il dottor Boris Vozrozhdenny paragonò la forza richiesta per causare simili fratture a quella sviluppata da un incidente stradale.
Tuttavia, erano del tutto assenti ferite esterne, tagli o contusioni, come se fossero stati schiacciati da una elevatissima pressione; la donna era inoltre priva della lingua.
Tra le rilevazioni più sconcertanti ci fu certamente quella che riguardava l’abbigliamento di alcuni dei defunti, i quali mostravano presentavano alti livelli di contaminazione radioattiva. Sebbene alcuni scienziati hanno fatto notare che alcune lanterne da campeggio usino reticelle di torio che possono lasciare residui radioattivi sui vestiti dei campeggiatori, i livelli sembravano eccessivamente elevati per essere riconducibili ad una fonte così modesta.
Il verdetto finale fu che i membri del gruppo erano tutti morti a causa di una irresistibile forza sconosciuta. L’inchiesta fu ufficialmente chiusa nel maggio 1959 per assenza di colpevoli. Secondo alcune fonti i fascicoli furono mandati in un archivio segreto e le fotocopie del caso, con alcune parti comunque mancanti, furono rese disponibili solo negli anni novanta.
Nei mesi successivi la strage, infatti, seguirono una di accesissime polemiche. Alcuni ricercatori sostengono che alcuni fatti furono trascurati, forse volutamente ignorati, dalle autorità:
Il dodicenne Yury Kuntsevich, che in seguito diventò il capo della Fondazione Djatlov di Ekaterinburg, partecipò al funerale di cinque degli escursionisti e ricordò che la loro pelle aveva “un’abbronzatura color bruno intenso”.
Un altro gruppo di escursionisti, che si trovava circa 50 km a sud del luogo dell’incidente, riferì che quella notte avevano visto delle strane sfere arancioni verso nord (cioè in direzione del Cholat Sjachl) nel cielo notturno. “Sfere” simili furono osservate con continuità anche a Ivdel’ e nelle zone adiacenti nel periodo tra febbraio e marzo 1959 da vari testimoni indipendenti (tra cui il servizio meteorologico e membri dell’esercito).
Alcuni resoconti suggeriscono che nella zona si trovavano molti rottami di metallo, il che porta a sospettare che l’esercito avesse utilizzato l’area per manovre segrete e potesse essere stato interessato a un insabbiamento della questione.
Chiaramente, data la mole di domande senza risposta e di sospetti insabbiamenti, l’Incidente del Passo di Djatlov è stato oggetto di numerose teorie e speculazioni. Alcuni pensarono che il gruppo fosse stato colpito da una valanga nel cuore della notte, anche se nessun segno del genere è stato trovato nei pressi del campo.
Altri hanno ipotizzato anche ad un attacco del popolo Mansi, anche se non sono state trovate orme che possano avvalorare l’ipotesi, la quale è anche in forte contraddizione con la natura pacifica di tale popolo. Inoltre, le lesioni riscontrate sui corpi sono tutte interne, con l’assenza totale di ferite o escoriazioni cutanee.
Ovviamente, c’è chi non ha escluso anche la possibilità di una fuga disperata dei campeggiatori rispetto ad un contatto alieno del quarto tipo o all’attacco di uno yeti o qualcosa del genere. Ad ogni modo, i fatti sono questi: i campeggiatori sono stati spaventati da un evento sconosciuto; sono riusciti a tagliare o strappare la tenda in un frenetico tentativo di fuga, rispetto a qualcosa che si avvicinava o era già dentro la tenda.
In preda al panico puro, hanno lasciato la tenda senza abiti, né scarpe. Essendo sciatori esperti, avrebbero dovuto essere pienamente consapevoli che non sarebbero sopravvissuti a lungo nelle lande gelide senza nessuna protezione.
Questo indica che la squadra doveva essere convinta che stavano affrontando un pericolo mortale e che avevano scelto di fuggire per salvarsi la vita. Al momento, ciò che resta è la laconica conclusione dell’indagine che indica l’evento come causato da una irresistibile forza sconosciuta.

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