mercoledì 29 novembre 2023

FLASH DRAGON

- Il risveglio del tuono -

Sembrerebbe un post Off Topic ma, in realtà non lo è. Infatti, la trama di questo graphic novel è basata su un'ucronia, ovvero, la creazione dell'uomo da parte di una razza aliena, che ben si accosta alle teorie di Zecharia Sitchin sugli antichi astronauti, di cui questo blog è stato sempre sostenitore.
Iniziato come un progetto amatoriale in self publishing è diventato, poi, un progetto editoriale vero e proprio, completamente ridisegnato da zero, con testi aggiornati, un nuovo formato (A4) e una nuova splendida copertina.




Tipologia: mini saga 


 Titolo: Flash Dragon - Il risveglio del tuono - 
Autore: Osvaldo Felace
Casa editrice: Dragon Editions
Genere: Fantascienza, mecha
Stampa: Bianco e nero
Numero di pagine: 60
Uscita: Annuale

 Disponibile negli store Mondadori e La Feltrinelli




Osvaldo Felace


martedì 30 ottobre 2018

FLASH DRAGON "Il risveglio del tuono"

Quando il mecha parla Italiano

 Eccoci qua amici miei.
Dopo mesi di lavoro, posso finalmente presentare il primo numero/episodio della mia nuova graphic novel Flash Dragon "il risveglio del tuono". Un racconto di genere mecha ispirato ai super robot ideati dal grande Go Nagai (autore di personaggi come Granzizer, Great Mazinger, Mazinger-Z, Jeeg robot e tanti altri) ma, al di là di quello che ci si possa aspettare, con una trama tutt'altro che scontata.
La copertina del primo episodio.
In un formato A5, tipico del fumetto italiano, e rigorosamente in bianco e nero, si discosta nello stile dal classico fumetto Bonelliano, abbracciando e fondendo insieme, sia nei disegni che nell'impostazione della tavola, il noir all'italiana con il supereroistico americano.

                                                             Il progetto

Inizialmente concepito come unico romanzo a fumetti, col passare del tempo e... delle tavole, mi sono accorto che c'erano troppe cose da raccontare, poichè non volevo un fumetto incentrato solamente sui combattimenti tra super robot. Per cui, ho dovuto optare per una mini serie, una trilogia forse, di cui "Il risveglio del tuono" ne è il primo capitolo.
Dopo la pagina ufficiale su Facebook e il relativo fan club, dove si possono seguire in tempo reale sia i progressi grafici (ogni nuovo personaggio o tecnologia creati vengono sottoposti al giudizio dei fan) che quelli narratori, ci sarà, in seguito, anche un blog dedicato dove potrò presentare al meglio ogni novità anche dal punto di vista dei modelli ed action figures che man mano verranno creati.

                                                   Un accenno alla trama

Nel 2018, un piccolo sistema planetario composto da una stella, una nana bruna, e un pianeta chiamato Nibiru, arriva nel nostro sistema solare da un altro universo chiamato "zona fantasma".
I Nibiriani pretendono di far valere un antico diritto di sfruttamento minerario della terra. Il consiglio di sicurezza dell'O.N.U. rifuta tale pretesa e in risposta, gli alieni attaccano la terra, distruggendo le principali metropoli del pianeta in sole 24 ore. A quel punto, L'O.N.U. chiede un cessate il fuoco alle forze Nibiriane, permettendo, in cambio, l'atterraggio di una gigantesca macchina perforatrice alla periferia di Los Angeles. La macchina inizia subito a trivellare il terreno e a cambiare il clima della California. La notte successiva all'attacco, un gruppo di persone, (un Colonnello dei Marines, il suo Maggiore, un pilota e una ragazza cyborg), a bordo di un mezzo blindato, si sta recando in una base militare segreta e prende a bordo uno strano ragazzo che ha perso la memoria.
E qui sono costretto a fermarmi per non spoilerare...

                                                           Il robot

Flash Dragon è un super robot altro 42m pilotabile tramite una navetta "lo spettro del drago" che si aggancia nella testa. A differenza dei super robot di Go Nagai, il pilotaggio non avviene solamente tramite la strumentazione di bordo, ma anche grazie ad una connessione neurale a tre tra il pilota, il robot e un animale totem, un drago presente in forma di spirito guida/aura protettrice. Altra novità, che rende più realistico e più divertente il pilotaggio, è la presenza di un'intelligenza artificiale nel cockpit chiamata "sfera"che interagisce con il pilota e che è un chiaro riferimento al mitico Kit di supercar.

 

                                       Lo "spettro del drago"



Ray Tristano 
il pilota di Flash Dragon


Per il protagonista ho scelto un nome italo-americano, perchè volevo che avesse qualcosa di Italiano almeno nel nome e a tal proposito mi sono ispirato al famosissimo jazzista Lenny Tristano, poichè anche Ray era un musicista. Inizialmente concepito biondo (prima immagine) ma, nel forum dedicato alla questione (sulla pagina facebook "Flash Dragon fan club"), i fan lo hanno preferito bruno. (seconda immagine)




Bene, penso che per questo primo editoriale sia abbastanza, non voglio rivelarvi di più, per non rovinarvi la scoperta graduale dei personaggi, delle tecnologie e della trama.
Il fumetto può essere acquistato sul sito www.lulu.com in formato e-book da subito, mentre per il formato cartaceo bisognerà aspettare ancora una settimana.
Un saluto e... Alla prossima
                                                                                                                      Osvaldo Felace









lunedì 6 agosto 2018

Non chiamatela Piramide di Cheope

Le prove contro la teoria ufficiale superano quelle a favore
Quando un navigatore curioso, con le migliori intenzioni, si dedica alla lettura in rete per comprendere come gli Egizi della IV Dinastia abbiano eretto la Grande Piramide, si imbatte inevitabilmente in una miriade di siti, ufficiali e non ufficiali, e deve districarsi tra tante ipotesi, alcune ardite, altre ridicole. Se è fortunato, può scaricare il seguente studio: l’opera di Maragioglio (egittologo) e Rinaldi (ingegnere civile) dal titolo “L’architettura delle piramidi Menfite”(1), che nel 1965 dedicarono un intero volume alla Piramide di Cheope (Parte IV del loro lavoro di ricerca). Nella loro “nota preliminare”, scrivono testualmente: “Precisiamo innanzitutto che consideriamo questa piramide unicamente come tomba del re Cheope (Hwfw), secondo sovrano della IV dinastia. Non terremo quindi in alcun conto le deduzioni ed illazioni di Piazzi Smyth, dei fratelli Edgar, dell’abate Moreux e di altri che seguono le stesse linee di pensiero”. Ora, è vero che Smyth, Egar e Moreux non sono il massimo della credibilità, ma, capite bene che con una simile introduzione, tutto il lavoro di Rinaldi e Maragioglio nasce ingabbiato nei confini dell’egittologia classica.
All’inizio del libro c’è un accenno al trasporto dei monoliti della camera del re e della regina, che cito testualmente:
“Il problema della costruzione delle piramidi, e cioè dei mezzi e degli artifici usati per la loro erezione, è posto nella sua interezza da questo imponente monumento. Infatti fu necessario sollevare a grande e altezza blocchi di pietra di volume anche maggiore di 1 metro cubo e quindi pesanti oltre 2500 k g. Per non parlare dei travi di granito della cripta e delle camere di scarico e dei travi a contrasto della copertura della «camera della regina» e dell’ultima camera di scarico: alcuni di questi travi non pesano meno di 25.000 k g. e si trovano a più di 70 metri dal piede dell’edificio. Il problema, però, potrà essere discusso solo dopo aver studiato tutte le piramidi e quindi ci riserviamo di affrontarlo in una « Questione di ordine generale » alla fine dell’opera”.
Scorrendo le pagine fino a fine opera, pag. 185, troviamo il capitoletto “Questione di ordine generale”: con entusiasmo leggo tutto il paragrafo e scopro che parla dell’areazione delle camere interne. Cerco un altro paragrafo, ma purtroppo questo è l’ultimo: segue la bibliografia. Quindi nessun accenno al colossale problema di movimentazione in quota dei monoliti da decine di tonnellate.
In quasi 100 pagine di ricerca, troviamo accuratissime descrizioni geometriche corredate da dettagliate planimetrie e disegni (ben dodici tavole) ed indicazioni storiche, numeri, misure, nomi, etc. ma nessun disegno tecnico corredato da indicazioni di fisica e meccanica, nessun calcolo vettoriale, nessuna dimostrazione di tipo scientifico, etc. All’interno di questa opera prestigiosa e punto di riferimento per molti studiosi del settore, si riassumono centinaia di informazioni sulla grande piramide, partendo sempre dall’assioma principale, fattore comune di tutte le ipotesi ufficiali ed accademicamente accettate: “Le piramidi di Giza sono state realizzate dagli Egizi della IV Dinastia”.
Ci si sarebbe aspettato un approccio multidisciplinare, grazie al contributo dell’ingegnere e architetto Rinaldi, purtroppo però, l’impostazione teorica del lavoro, è più simile ad un libro di storia/architettura che ad un libro di costruzioni/tecnologia. Questo esempio è importante per capire come, senza un approccio libero dall’assioma fondamentale, anche un prestigioso ingegnere (egittologo) e ricercatore di fama mondiale come Rinaldi, non possa giungere ad altre conclusioni se non quelle ufficiali.
Tornando al navigatore curioso di cui sopra, non esiste un sito autorevole che gli indichi con chiarezza tutte le tecniche di costruzione ufficialmente ritenute valide e quelle ritenute degne di approfondimento, quindi è facile imbattersi in informazioni a volte fuorvianti.
Che si parli di rampe a spirale, di rampe frontali, di malte cementizie, di rampe interne, etc., tutte le ipotesi si concentrano a spiegare come gli Egizi abbiamo portato in quota e posato la maggior parte dei 2.300.000 blocchi che costituiscono la Grande Piramide, ovvero quelli con peso contenuto sotto le 4 tonnellate (98% dei blocchi). A titolo di esempio, si riporta un disegno dove si evincono le proporzioni e le % dei blocchi:

Fig.2 (dal Libro “Nel Cantiere della Grande Piramide” M.V. Fiorini): il 10% dei blocchi ha un peso superiore alla tonnellata (per intenderci il peso di una Fiat Panda nuova a benzina); mentre solo il 2% supera le 4 tonnellate con picchi di 70 tonnellate. Il terzo blocco (in basso) rende l’idea della grandezza dei blocchi che costituiscono la Camera del Re: notate il disegno dell’uomo vicino al blocco per capire di cosa stiamo parlando.
In effetti, con i blocchi da 1-3 m^3 e da 1-3 tonnellate di peso, è possibile formulare diverse ipotesi plausibili, anche se alcune poco verosimili, a mio avviso. Il vero problema si pone quando andiamo ad analizzare “il cuore” della Grande Piramide: la cosiddetta “camera del Re”, costituita da monoliti in granito rosa di Assuan dal peso di decine di tonnellate. I blocchi che costituiscono il cosiddetto “Zed”, pesano circa 70 tonnellate secondo le stime più attendibili(2) e sono posizionati a circa 50 metri di altezza dalla base della piramide. Le immagini seguenti, danno indicazione sulle dimensioni e sul posizionamento del complesso “Zed”:
Un lettore che osserva per la prima volta le immagini sopra riportate, è subito colpito dalla complessità del sistema di camere e gallerie che si trovano all’interno della piramide a vari livelli. Una complessità che stupisce ancora di più se si pensa che si tratta di un edificio gigantesco, che risulterebbe già ultra-complesso se realizzato solo con blocchi da 1m^3; ci si domanda subito perché mai una civiltà appena uscita dal neolitico come quella Egizia della IV Dinastia, si sia complicata la vita con delle megastrutture monolitiche da decine di tonnellate a geometria complessa. La risposta ufficiale (camere sepolcrali) non convince, a mio avviso. Il metodo di analisi che trovo più utile in questi casi, consiste nel partire da dati reali che possano costituire una base di lavoro valida. Su questo argomento, è importante partire da esperienze certe e storicamente provate di trasporto di monoliti nelle antiche civiltà occidentali: esempi perfetti sono gli Obelischi Egizi che troviamo sia a Roma, sia in Egitto e che sappiamo di certo essere stati trasportati ad esempio dai Romani lungo il Nilo e poi nel Mar mediterraneo fino a Roma.
Nel mio articolo “Grande Piramide e Colosseo a confronto” (academia.edu) ho evidenziato le differenze di capacità tecnologica che separano l’Impero Romano da quello Egizio della IV Dinastia. Tenendo ben presente queste differenze, analizziamo la seguente tabella per quanto riguarda gli Obelischi che si trovano principalmente a Roma, con particolare attenzione alla pendenza del percorso di trasporto:
In questo caso, ho utilizzato una semplificazione di calcolo: avrei dovuto suddividere il percorso di trasporto di ogni obelisco, in una spezzata e calcolare la pendenza dei singoli tratti ed alla fine ottenere un valore medio, ma, essendo impossibile risalire al percorso di trasporto a distanza di 2000 anni, è sufficiente utilizzare l’altezza sul mare tra il punto di partenza ed il punto di arrivo, quindi tra la città che ospitava l’Obelisco ed il fiume Nilo (con il percorso più breve). L’ordine di grandezza dell’errore è irrilevante, perché l’obiettivo è dimostrare che il trasporto si svolgeva su terreno pianeggiante.
Dalla tabella, infatti, si evince che il percorso degli Obelischi dalla loro posizione originale fino al fiume Nilo, è un percorso con pendenze inferiori all’1 %, quindi pianura (se fosse stato anche il doppio, o il triplo, staremmo sempre discutendo di trasporto in pianura). Gli obelischi proseguivano sul Nilo e poi con le grandi navi romane appositamente costruite per il traporto degli Obelischi, lungo il Mediterraneo, fino al porto di Ostia. La pendenza tra Ostia e Roma è di circa lo 0,21%, quindi di nuovo pianura. Per quanto riguarda gli Obelischi ritrovati in Egitto, essi si ergono su città che distano pochi km dal fiume Nilo, e principalmente in tre città: Luxor, Heliopolis e Tebe (Karnak). Le pendenze da affrontare per il trasporto dal fiume al luogo di erezione sono tutte al di sotto del 1%, praticamente pianure.
Come fecero i Romani in epoca successiva e con tecnologie più avanzate, possiamo con ogni probabilità dire che anche gli Egizi affrontarono il trasporto degli Obelischi dalle cave di Assuan lungo il fiume Nilo e poi dalle sponde del fiume Nilo fino ai luoghi di erezione, sostanzialmente in pianura.
Ricapitolando, abbiamo i seguenti percorsi:
– Assuan – Nilo: percorso in pianura o addirittura a favore di pendenza
– Heliopolis – Nilo: pianura (andata per gli Egizi e ritorno per i Romani)
– Luxor – Nilo: pianura (andata per gli Egizi e ritorno per i Romani)
– Karnak – Nilo: pianura (andata per gli Egizi e ritorno per i Romani)
– Nilo – Mediterraneo: percorso a pendenza zero
– Ostia – Roma: pianura
Sia gli Egizi, sia i Romani, trovarono nella forma allungata degli Obelischi il vantaggio che gli consentiva di moltiplicare i punti di ancoraggio per facilitarne il tiro e la movimentazione. Se anche volessimo ipotizzare che gli Egizi delle Dinastie successive alla IV (dalla XII in poi) avessero movimentato gli Obelischi anche su pendenze maggiori, è indubbio che lo avrebbero fatto in condizioni di lavoro molto diverse da quelle del cantiere della Grande Piramide. Non abbiamo informazioni certe e sufficienti per spiegare come gli Egizi movimentassero gli enormi monoliti, ma abbiamo alcuni dipinti di epoca più recente che ci vengono in aiuto, come quello seguente:

Obelisco Vaticano(3): fu spostato al centro della piazza San Pietro (appena 200 metri di ‘cammino’),dove è posizionato oggi, sotto Sisto V , dopo incredibili lavori (che coinvolsero 400 carri trainati da quadrighe e migliaia di operai e facchini) coordinati all’architetto Domenico Fontana in tredici mesi dal settembre 1585 al settembre 1586. Venne eretta una colossale torre di legno, tenuta da corde e cerchi di ferro, che faceva da gabbia all’obelisco, mentre altre funi, tirate con argani e verricelli, sollevavano e muovevano l’imponente monolite dalla sua antica collocazione.
Considerando che la scoperta dell’acciaio è del XX secolo, possiamo dire che le operazioni di spostamento dell’obelisco Vaticano furono fatte sostanzialmente utilizzando la stessa tecnologia degli Egizi e dei Romani dell’età del Ferro. Con l’ausilio di 400 carri trainati da quadriglie e migliaia di operai, in uno spazio aperto vasto, gli ingegneri rinascimentali impiegarono più di un anno per spostare l’obelisco di appena 200 metri in pianura: questi sono gli ordini di grandezza in gioco quando si parla di monoliti che pesano decine di tonnellate. Dati reali, non speculazioni da scrivania (spesso fatte da letterati esperti di archeologia e storia, senza competenze di cantieristica).
Il più antico Obelisco(4) si trova ad Eliopoli (al-Maṭariyyah) e appartenne a Zenwósre I, dinastia XII del Faraone Amenemhat I, 1991 – 1962 a.C.. Quindi la storia degli Obelischi monolitici in Egitto nasce ufficialmente a fine età del Bronzo, inizio età del Ferro. All’epoca della V Dinastia abbiamo notizie di un “obelisco tozzo” fatto in muratura: l’obelisco di Abusir(5) databile intorno al 2400 a.C.
Risulta subito chiara una prima grande anomalia: la IV Dinastia ancora una volta (come dimostrato nell’articolo “L’anomalia della settima meraviglia” academia.edu) rappresenta un’anomalia storico-tecnologica in quanto sarebbe stata in grado di realizzare opere ingegneristiche al di sopra delle proprie capacità tecnologiche ufficiali ed in largo anticipo rispetto alle Dinastie successive.
Ed oggi, nel 2017, come le trasportiamo noi, uomini ultratecnologici, tonnellate di peso su rampe inclinate? Nelle cave e nei cantieri edili, si usano mega-grù che sollevano, non trainano (né ovviamente trascinano).Un’esperienza personale però, ci da lo spunto per una riflessione che potrà aiutarci. L’analisi comparativa che segue, nasce da una fortuita coincidenza: qualche settimana fa ho utilizzato la linea ferroviaria a cremagliera che porta da Torino alla basilica di Superga, denominata “La Tranvia a Dentiera Sassi-Superga”; si tratta di una linea tranviaria inizialmente mossa con motore esterno e funi, trasformata nel 1934 in tranvia a dentiera con trazione a rotaia centrale ed oggi, nel 2017, completamente ripristinata, offre ai visitatori un viaggio d’altri tempi sulle carrozze originarie. Proprio questo aspetto, mi ha consentito di notare alcuni dettagli molto importanti durante il viaggio.
Il percorso si sviluppa per 3.100 metri tra la stazione di Sassi (sita a Torino in piazza Modena, a 225 metri s.l.m.) e la stazione di Superga (a 650 metri s.l.m.). Il dislivello totale di 425 metri è superato con una pendenza media del 13,5%, con punte massime del 21% nel tratto finale tra Pian Gambino e la Stazione di Superga.
Il “convoglio” è formato solo da due carrozze: una motrice ed un vagone, di seguito riporto alcune foto:
Il treno è dotato di un motore elettrico a corrente continua con tensione di lavoro di 600 V (tipico di quei tempi). La mia fortuna è stata essere alle spalle del macchinista ed accorgermi che, ben in vista, vi erano in cabina un voltmetro ed un amperometro:

Cabina di comando

cheope
Voltmetro e Amperometro
I valori letti al momento in cui ho scattato la foto sono i seguenti:
– Tensione V= 580 Volt
– Corrente A= 600 Ampere
La potenza P erogata dal motore è nota ed è il prodotto tra tensione e corrente:
– Potenza P = V * A = 580 * 600 = 348 kW = 473 cv
Anche se l’unità di misura della potenza del S.I. è il Watt, in questa analisi è più utile esprimere la potenza in cavalli vapore (cv): stiamo quindi parlando di circa 473 cavalli.
E’ ora importante capire quante tonnellate sta trasportando il motore elettrico, a quale pendenza ed a quale velocità. Per la pendenza ho utilizzato un metodo “empirico” moderno: inclinometro App su Android; ho quindi lanciato l’App ed ho appoggiato il cellulare sul pavimento della carrozza, mentre per la velocità mi è bastato allungare lo sguardo al tachimetro del macchinista.
Per quanto riguarda il peso, la situazione è stata un po’ più complicata.
Grande Piramide
Tachimetro

Vagone unico (senza motrice)
Dalla seconda foto si può notare la tara del vagone unico: 9,4 tonnellate.
Il problema è sorto con la motrice, perché non riportava alcuna scritta; ho dovuto quindi “interrogare” i macchinisti ed il capo treno che si sono con gentilezza messi a disposizione indicandomi il peso della motrice in almeno 11 tonnellate. Al momento della mia misurazione ho contato nella carrozza motrice 38 persone ed altrettante circa nel vagone. (approssimativamente, perché in fase di ingresso alla stazione Sassi, hanno prima riempito il vagone e poi la motrice dove sono salito io) per un totale di circa 80 persone.
Riepilogando, abbiamo:
– Inclinazione: 12,8°
– Peso totale trasportato: 27.000 kg (sommando 9.400 kg vagone, + 11.200 kg motrice + 6.400 kg passeggeri, stimando un peso medio passeggero di 80 kg)
– Velocità: 16 km/h (costante per quasi tutto il tragitto)
Con questi dati a disposizione, possiamo riassumere l’analisi nella seguente frase: per trasportare su rotaie un peso di circa 27 tonnellate lungo una rampa inclinata di circa 13° è necessaria una potenza motrice di circa 470 cavalli vapore per imprimere al carico una velocità costante di circa 16 km/h.
E’ necessario ora analizzare la definizione di cavallo vapore: la potenza necessaria per sollevare un peso di 75 kg alla velocità di un metro al secondo (ovvero 3,6 km/h). Notiamo subito che il nostro “esperimento” è stato condotto alla velocità di 16 km/h, quindi bisogna rapportare il numero di cavalli vapore per rispondere alla seguente domanda: quante tonnellate sarebbero stati in grado di trasportare 470 cavalli, se il convoglio avesse viaggiato a 3,6 km/h anziché 16 km/h?
A questo livello di approssimazione, possiamo utilizzare una semplice proporzione partendo dal fatto che se 470 cavalli riescono a spostare 27 tonnellate a 16 km/h, se diminuisco la velocità a 3,6 km/h possono trasportare più peso e precisamente il rapporto 16/3,6 che equivale a 4,44; pertanto ottengo il seguente valore: circa 120 tonnellate (questo ragionamento è supportato dal fatto che è sperimentalmente dimostrato che a minore velocità, un cavallo riesce a trainare più peso(6)).
Intuitivamente, si capisce che se il macchinista avesse dovuto trasportare circa 4 volte il peso che stava trasportando (120 tonnellate al posto delle 27 tonnellate), lo avrebbe potuto virtualmente fare solo diminuendo la velocità (essendo la potenza il rapporto tra il numero di giri del motore e la coppia motrice, a parità di potenza, diminuendo il numero di giri motore, quindi velocità del treno, deve aumentare la coppia motrice e quindi la capacità di trasportare più peso).
La nostra frase quindi si trasforma nella seguente: per trasportare su rotaie un peso circa 120 tonnellate lungo una rampa inclinata di circa 13° è necessaria una potenza motrice di circa 470 cavalli vapore per imprimere al carico una velocità costante di circa 3,6 km/h. La velocità di 3,6 km/h ci è molto utile perché è convenzionalmente accettata come la velocità di cammino di un uomo.
Il prossimo passaggio fondamentale è la trasformazione del valore di potenza da “cavalli vapore” a “uomini vapore”6: per rispondere a questa domanda consideriamo gli esseri umani dalle prestazioni più elevate, ovvero gli atleti di alto livello. I livelli più alti di potenza vengono raggiunti dai ciclisti. La potenza dell’atleta è calcolata moltiplicando la coppia (ovvero la forza applicata sui pedali moltiplicata per la lunghezza della pedivella) per la velocità angolare (numeri di giri motore, tornando a quanto sopra esposto). Il test viene effettuato su speciali biciclette da laboratorio, dette cicloergometri, dotate di sensori. I risultati sono sorprendenti: alcuni campioni riescono a sviluppare potenze massime di circa 1800 W, ovvero quasi 2,5 CV! Dobbiamo dunque credere che uno di questi atleti straordinari sia più potente di una pariglia di cavalli da tiro? In realtà non è così. Valori di potenza così elevati possono essere raggiunti dall’uomo solo per pochi secondi, mentre il valore di 745 W approssima la potenza media che un cavallo può fornire durante tutta una giornata di lavoro di 10 ore. Il valore massimo per questi animali è in realtà di circa 15 HP, ovvero oltre 11 000 W, ma può essere mantenuto per periodi molto brevi.
Pertanto il rapporto tra cavallo-vapore ed uomo-vapore è di 1 a 6 (11.000 W / 1800 W); la nostra frase quindi diventa: per trasportare su rotaie un peso circa 120 tonnellate lungo una rampa inclinata di circa 13° è necessaria una potenza motrice di circa 2.840 uomini (473 x 6) per imprimere al carico una velocità costante di circa 3,6 km/h. A questo punto, l’ultimo passo è rapportare i risultati ottenuti con motrice + vagone, al generico monolite di granito rosa che costituisce la camera del Re che pesa circa 70 tonnellate, invece che 120 tonnellate. Con una semplice proporzione, otteniamo la frase finale: per trasportare su rotaie un peso circa 70 tonnellate lungo una rampa inclinata di circa 13° è necessaria una potenza motrice di circa 1.650 uomini per imprimere al carico una velocità costante di circa 3,6 km/h.
Questi sono i dati, al netto di alcune imprecisioni ed approssimazioni (ad esempio errori di misurazione, rendimento del motore elettrico, la coppia motrice realmente erogabile dal motore per il trasporto, etc.). Come per gli altri miei articoli, è importante capire le grandezze in gioco e l’ordine di grandezza dell’analisi: è infatti fondamentale capire la meccanica e la fisica del fenomeno ed individuarne un ordine di grandezza credibile e verosimile. Successivamente, andrebbero fatte prove di laboratorio in scala 1:1, ma occorrerebbero cospicui fondi, attualmente bloccati per altri scopi (ad esempio trovare altre mummie in giro per l’Egitto e studiarle nei minimi particolari). Ai più attenti non sarà di certo sfuggito un particolare di non poco conto: l’analisi suddetta è svolta per “trasporto su rotaie”, ma è noto che all’epoca della IV Dinastia, gli Egizi non conoscessero la ruota, né tutte le sue sfumature tecnologiche. Tutti gli studi ufficiali infatti parlano di “traino” su slitte.
Simone Scotto di Carlo


News originale:
academia.edu

sabato 7 aprile 2018

Un'origine più antica per Homo sapiens

I resti fossili di H. sapiens, tra cui un cranio e una mandibola, scoperti nel sito di Jebel Irhoud, in Marocco, risalgono a 300.000-350.000 anni fa: si tratta dei più antichi reperti noti della nostra specie, la cui origine non può più essere confinata nell'Africa sub-sahariana. E' questa la conclusione di un'analisi che documenta l'esistenza di una fase “pre-moderna” nell'evoluzione di H. sapiens

Cranio di H. sapiens ricostruito al computer sulla base di microscansioni di tomografia computerizzata di fossili del sito di Jebel Irhoud (Credit: Philipp Gunz, MPI EVA Leipzig)



La scoperta di Jean-Jacques Hubin e colleghi del Max-Planck-Institut per l'Antropologia evoluzionistica a Leipzig, in Germania, descritta in due articoli su “Nature”, potrà contribuire a mettere un po' di chiarezza nel complesso puzzle di dati finora raccolti sull'evoluzione degli esseri umani moderni a partire dal genere Homo.

I più antichi resti attribuiti a H. sapiens finora sono stati scoperti nell'Africa orientale e risalgono a circa 195.000 anni fa. La frammentarietà degli altri reperti più o meno vicini cronologicamente non permette di sapere se le caratteristiche che definiscono la nuova specie emersero rapidamente intorno a 200.000 anni fa, o più gradualmente, 400.000 anni fa circa.

Il ritrovamento di fossili a Jebel Irhoud non è una novità, anzi i primi risalgono addirittura agli anni sessanta. Si tratta di ossa di animali e reperti litici simili a quelli tipici della cultura mousteriana, associata all'Uomo di Neanderthal.

Una prima datazione situava cronologicamente i reperti a circa 40.000 anni fa, per cui si pensò a una forma africana di neanderthaliani. Non tutti i paleoantropologi però furono d'accordo, anche perché successive analisi indicarono che un cranio e una struttura facciale avevano affinità anatomiche più con H. sapiens che con H. neanderhaliensis.


Un'origine più antica per Homo sapiens
Frammento di mandibola trovato a Jebel Irhoud (Credit: Jean-Jacques Hublin, MPI-EVA, Leipzig)
Questa conclusione fu confermata quando nel 1968, 
nello stesso sito, fu scoperto un frammento di mandibola datato a 160.000 anni fa, con denti che mostravano caratteristiche assimilabili a quelle di H. sapiens.

Tuttavia, i reperti trovati in Africa orientale e risalenti alla stessa epoca avevano tratti ancora più moderni, il che consolidò l'ipotesi che i fossili di Jebel Irhoud fossero testimonianza di una presenza umana marginale e periferica rispetto alle vere origini di H. sapiens.

Nuovi scavi nello stesso sito hanno ora ribaltato completamente la prospettiva, poiché hanno riportato alla luce altri strumenti litici e resti umani relativi ad almeno cinque individui, tra cui un cranio parziale e una mandibola, contenuti in uno strato geologico risalente a 280.000-350.000 anni fa.

Nel primo articolo di “Nature”, a prima firma Jean-Jacques Hublin, viene descritta l'analisi, condotta con tecniche statistiche, della forma dei reperti di Jebel Irhoud messi a confronto con altri resti attribuiti al genere Homo e risalenti a un ampio arco temporale (tra 1,8 milioni e 150.000 anni fa), a fossili di H. sapiens risalenti a 130.000 anni fa e a neanderthaliani.

La conclusione è che i campioni scoperti in Marocco sono chiaramente distinguibili sia da quelli di H. neanderhaliensis che da quelli delle altre specie di Homo, e trovano la massima somiglianza con quelli dei moderni H. sapiens.


Un'origine più antica per Homo sapiens
Utensili litici trovati nel sito marocchino e attribuiti al Paleolitico medio (Credit: Mohammed Kamal, MPI EVA Leipzig)
Questa somiglianza è vera in particolare per il frammento di mandibola, se si eccettua per la maggiore larghezza.

Il cranio, invece, esternamente presenta  caratteri intermedi tra quelli arcaici e quelli moderni, ma è abbastanza simile a quello di H. sapiens scoperto nel sito di Laetoli in Tanzania, e al più recente cranio ritrovato a Qafzeh, in Israele.

Di grande interesse la forma interna della teca cranica, la cui struttura sembra già preludere all'evoluzione verso la forma globulare del cranio di H. sapiens delle epoche successive. Secondo Hublin e colleghi, i fossili di Jebel Irhoud rappresentano la migliore prova paleoantropologica trovata finora dell'esistenza di di una fase “pre-moderna” nell'evoluzione di H. sapiens.

Il secondo articolo, a prima firma Daniel Richter, descrive i risultati dell'analisi, condotta con una tecnica di termoluminescenza, dei resti di utensili scoperti nel sito marocchino, che sono attribuiti al Paleolitico Medio (300.000-40.000 anni fa).

I resti di animali ritrovati negli stessi strati mostrano inoltre una manipolazione umana e i resti di carbonella indicano un probabile controllo del fuoco.

Si tratta in definitiva di artefatti simili a quelli già descritti in altri siti dell'Africa orientale e meridionale, ma di epoca molto più remota: l'accuratezza della datazione li rende i più antichi artefatti paleolitici associabili a H. sapiens.


FONTE:



venerdì 3 novembre 2017

SCOPERTA UNA STANZA SEGRETA NELLA PIRAMIDE DI KEOPE

La piramide di Cheope non smette di stupire: al suo interno è stata individuata una nuova misteriosa cavità, lunga almeno 30 metri, posta al di sopra della Grande Galleria. Lo annunciano su Nature i ricercatori del progetto internazionale ScanPyramids, che da due anni stanno scrutando nel 'cuore' della più grande e antica delle tre piramidi della piana di Giza, vicino il Cairo, usando tecniche di rilevamento non invasive basate sulla fisica delle particelle.
Lo studio ha impiegato una tecnica in particolare, chiamata muografia, che permette di 'leggere' il cammino di particelle subatomiche (muoni) prodotte dall'interazione dei raggi cosmici provenienti dallo spazio con l'atmosfera terrestre. I muoni seguono traiettorie differenti quando si muovono nell'aria rispetto a quando attraversano le pietre, e dunque sono in grado di svelare la presenza di cavità. Nella grande piramide di Cheope questo è accaduto già due volte. La rilevazione di una prima anomalia aveva portato ad annunciare nell'ottobre 2016 la scoperta di un corridoio localizzato vicino alla parete nord. Ora una seconda anomalia, individuata nel marzo 2016 e studiata per un anno con diversi tipi di muografia, ha permesso di individuare questa nuova cavità: simile per dimensioni alla Grande Galleria, potrebbe essere composta da una o più strutture e potrebbe avere una disposizione orizzontale o leggermente inclinata. La sua funzione resta ancora un mistero.
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Uno dei leader della squadra, Hany Helal dell'Università del Cairo, crede che il vuoto è troppo grande per avere uno scopo di alleviare le pressioni, ma concede che gli esperti si discuteranno.
"Quello che facciamo sta cercando di capire la struttura interna delle piramidi e come questa piramide è stata costruita", ha detto ai giornalisti.
"I famosi egittologi, gli archeologi e gli architetti hanno delle ipotesi, e ciò che stiamo facendo è dare loro dei dati: è loro che devono dirci se questo è previsto o no".
Gran parte dell'incertezza scenderà verso i dati piuttosto imprecisi ottenuti dalla muografia.
Questa tecnica non invasiva è stata sviluppata negli ultimi 50 anni per sondare gli interni di fenomeni così diversi come i vulcani e i ghiacciai. È stato addirittura utilizzato per indagare i reattori nucleari falliti a Fukushima.
Muografia fa uso della doccia di particelle ad alta energia che cadono sulla superficie terrestre dallo spazio.
Quando i raggi cosmici super-veloci si scontrano con le molecole d'aria, producono una serie di particelle "figlia", tra cui muoni.
Questi si muovono anche vicino alla velocità della luce e interagiscono debolmente con la materia. Quindi, quando raggiungono la superficie, penetrano profondamente nella roccia.
Ma alcune delle particelle saranno assorbite e deviate dagli atomi dei minerali della roccia, e se i rivelatori muon sono posti sotto una regione di interesse, si può ottenere un'immagine di anomalie di densità.

lunedì 18 settembre 2017

Il disco nel lago di Vostok: dopo trent’anni il mistero è ancora fitto

Trent’anni e venticinque milioni di anni. Queste sono le tappe di quello che, probabilmente, è oggi il più affascinante mistero che riguarda lo studio dei fondali inesplorati.

Il lago di Vostok, in Antartide, fu scoperto per la prima volta da un geografo russo, Andreji Kapica nel 1959 e poi, per la prima volta, oggetto di studi e carotaggi, a partire dai primi anni novanta.

Si tratta di un lago sub-glaciale, individuato a circa tremilasettecento metri di profondità rispetto alla superficie del polo sud, in una zona dell’Antartide orientale ed è parte di una serie di settanta laghi sub-glaciali. I dati che riguardano questo bacino sotterraneo indicano una lunghezza di 25° chilometri, un’ampiezza oscillante tra i quaranta e i cinquanta chilometri e una profondità rispetto alla superficie oscillante tra i tremilasettecento e i quattromila metri. Il dato più importante relativo alle caratteristiche geotermiche del lago è dato dal fatto che la sua temperatura media sarebbe di meno tre gradi, dunque superiore, a quella profondità, alla temperatura di fusione del ghiaccio. Inoltre, secondo gli studi sin qui condotti, il fondale del lago sarebbe localizzato in una zona in cui la crosta terrestre potrebbe essere più sottile e, dunque, sarebbe possibile ipotizzare la presenza di temperature molto più elevate, attorno ai trenta gradi.
Sino a pochi anni fa, dunque, era solo ipotizzabile che sotto i ghiacci dell’Antartide fosse presente una sorta di ecosistema puro, incontaminato, risalente a circa venticinque milioni di anni fa. Presenza di acqua, temperature miti, sostanziale isolamento del bacino lacustre, infatti, promettevano, con un dato margine di certezza, di sostenere la teoria di una zona primitiva incontaminata in cui forme di vita sconosciute potessero vivere indisturbate. Nel febbraio del 2012, poi, l’istituto russo di ricerca sull’Antartide conferma la notizia che una equipe di studiosi di pari nazionalità ha “bucato” la calotta di ghiaccio raggiungendo la profondità di 3776 metri trovandosi, dunque, nella possibilità di sondare la “bolla” di acqua e aria presente nel sottosuolo.
Occorrono ancora alcuni mesi e, nell’ottobre dello stesso anno, un “incidente” durante le perforazioni consente l’incredibile scoperta: un flusso di cherosene, risalito in superficie durante una trivellazione, per via della differenza di pressione, e immediatamente ricongelato in superficie, porta con sé dei batteri. Forme di vita, dunque. Probabilmente sconosciute. I batteri vengono poi analizzati e si scopre che essi hanno un DNA sconosciuto all’ottantasei per cento (i protocolli scientifici stabiliscono che, affinché si parli di vita “aliena”, nel senso di specie vivente non nota, occorre che lo scarto sia almeno pari al novanta per cento).
Appare subito evidente l’enormità della scoperta, non tanto per lo scarto differenziale tra ceppi genetici conosciuti e ignoti, quanto piuttosto perché il ritrovamento conferma che c’è un ecosistema o, quanto meno, che in quel lago la vita esiste. E quella vita, se tutte le variabili sin qui ipotizzate restano valide, risale a venticinque milioni di anni fa. Tutto questo potrebbe già essere sufficiente per confezionare la sceneggiatura di un romanzo, o la trama di una serie tv tra quelle oggi più in voga. Eppure, si tratta solo di una parte delle numerose coincidenze che riguardano questa zona del globo terrestre.
Ecco gli altri ingredienti che, da trent’anni, rimangono inspiegabili. Le stesse attività di ricognizione e studio del lago confermano che, a sudovest del lago, insiste una attività magnetica inspiegabile che condiziona i risultati ottenuti attraverso la strumentazione scientifica. Il magnetismo terrestre sarebbe disturbato da onde magnetiche di origine ignota. Si tratta di una alterazione di circa 1000 nanotesla. Non basta. In quella stessa parte del lago, in profondità, appare ormai evidente che “qualcosa” sia deposto sul fondale. Qualcosa dalle dimensioni troppo regolari per poter essere una struttura naturale: dunque, un artefatto. Un oggetto circolare o cilindrico e, in considerazione dello sbalzo magnetico rilevato dagli strumenti, probabilmente di composizione metallica. Meno certe le notizie riguardanti il diametro di questa formazione metallica: si parla addirittura di cento chilometri.

Non basta. Sempre nel 2012, il canale tv Fox annuncia che una intera spedizione scientifica è scomparsa nella zona di perforazione della calotta antartica, per poi riapparire magicamente dal nulla. Ovviamente, a seguito di ciò, le notizie si fanno sempre più scarne e la cosa passa sottotraccia. Ma non basta ancora. Sempre nel 2012 due donne australiane attraversano il continente antartico sugli sci; una volta giunte sono state prelevate con la forza di una squadra americana e messe in isolamento in un luogo non precisato. Altro non è stato detto e da allora non si è saputo che fine abbiano fatto le due malcapitate. L’unica cosa certa è che la loro scomparsa cela un mistero collegato con l’ultimo collegamento radio e la base di Casey, stazione australiana, nella quale affermavano che “avevano visto qualcosa di cui volevano assolutamente riferire, ma di cui non osavano parlare per via radio per timore di essere captate”. È servito a poco, perché sono state intercettate e isolate rendendo ancora più fitto il mistero. Cosa hanno visto le due donne che non dovevano vedere? Basta così?
Non basta affatto. Nella stessa zona, nel giugno 1934, nel corso della seconda spedizione a lui assegnata, Richard Evelyn Byrd – Esploratore polare e aviatore statunitense (Winchester, Virginia, 1888 – Boston 1957) era rimasto isolato a circa 125 miglia dal campo base. Altri membri della spedizione dovevano spingersi in suo soccorso, ma a 50 miglia dalla partenza il trattore sul quale viaggiavano si era rotto. Un secondo tentativo si era risolto in un altro fallimento a 30 miglia dalla base. Il terzo finalmente aveva avuto successo, ma Byrd era stato trovato in condizioni critiche, dopo aver resistito circa tre settimane. In un suo diario redatto al termine di questa infernale campagna polare, l’ammiraglio, da tutti conosciuto come persona pragmatica e assolutamente affidabile, raccontò di aver raggiunto il sottosuolo del continente antartico, di avervi trovato un reticolato di caverne e, al loro interno, una civiltà umanoide con cui aveva interagito sino alla data del suo ritrovamento.
Caverne abitate. E, naturalmente, non basta. Alcuni quotidiani russi, proprio in occasione delle trivellazioni operate sul fondale del lago, hanno rispolverato una vecchia fantastoria. Infatti, assieme alle teorie sulle possibili scoperte di organismi mai visti, riaffiora anche la storia dei resti di Hitler, che potrebbero essere stati trasportati in Antartide alla fine della Seconda guerra mondiale. Più che resti, campioni di dna, con l’obiettivo di clonare il Führer ed Eva Braun, la compagna morta con lui. Nel 1943, peraltro, l’Ammiraglio Karl Doenitz si vantava del fatto che una flotta di sottomarini tedeschi avesse raggiunto l’Antartide e lì avesse lavorato duramente per allestire «una fortezza inespugnabile per il Führer all’altro capo del mondo. Di concreto, a suffragio, c’è davvero poco. Spulciando, infatti, gli archivi navali tedeschi, emersi a seguito della caduta del Terzo Reich, parrebbe che, nel 1945, il sottomarino U-530 arrivò effettivamente al Polo Sud. È evidente la differenza che esiste tra “un sottomarino” e una intera flotta di sommergibili. Comunque, i membri dell’equipaggio avrebbero costruito una grotta di ghiaccio, utilizzata come magazzino di fortuna – probabilmente anche temporaneo – con «reliquie del Terzo Reich».
E, naturalmente, non potevano mancare le precipitazioni di meteoriti, ulteriore tassello per introdurre il tema della panspermia, ossia l’innesco della vita, sul pianeta terra, a opera di DNA interstellare precipitato nelle feconde acque terrestri assieme alle meteore. Alcuni di questi meteoriti, infatti, sono stati rinvenuti nelle profondità antartiche. Ad attrarre in modo particolare gli studiosi sarebbe uno dei tre meteoriti antartici, “Nakhla”, conservato da circa 100 anni nel Museo di Storia Naturale di Londra.
Mescolando tutti gli ingredienti di questa gustosa ricetta è almeno possibile trarre una conclusione: finché non si farà chiarezza sul “misterioso” oggetto discoidale deposto sul fondale del lago di Vostok tutte le speculazioni più azzardate continueranno a proliferare, soprattutto se, ad alimentarle, contribuiscono fatti come quello di seguito riassunto.
Tempo fa, la portavoce della NASA, Debra Shingteller, nel corso di una conferenza stampa, ha alluso a «questioni di sicurezza nazionale» che hanno consentito all’ente aerospaziale di assumere il controllo di quello che era stato un tentativo internazionale di esplorare un vasto lago sotto il ghiaccio nei pressi della stazione di ricerca russa Vostok. La signora Shingteller pare sia stata immediatamente allontanata dal podio, lasciando a un’assistente il compito di sostituire le inquietanti dichiarazioni con un più rassicurante teorema: «il progetto è stato bloccato a causa di problemi di natura ambientale». Comunque, dopo la conferenza stampa, pare che la signora Shingteller non abbia risposto a ripetuti tentativi di contatto.
Vincenzo Di Pietro

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