domenica 23 agosto 2015

Il mistero di Glozel


Un giorno del 1869 alcuni cacciatori usciti in battuta dal castello di Santillana del Mar, ai piedi dei monti Cantabrici nel nord della Spagna, si accorsero che un cane della loro muta si era perso.
Dopo un'affannosa ricerca erano riusciti a sentire i suoi lamenti provenire da una spaccatura nel terreno. Dalla fenditura risaliva un flusso di aria fresca. Scesi nel crepaccio, si erano trovati dentro a una grande caverna.
Recuperato il cane, avevano fatto ritorno al castello e riferito al loro padrone, don Marcelino de Sautuola, quello che avevano accidentalmente scoperto. 


Questi, una volta visitato il posto, consideratolo una cavità naturale, non lo aveva ritenuto particolarmente interessante e aveva dato ordine di chiudere l'accesso affinchè i ragazzi del villaggio non corressero il rischio di precipitarvi. Per i successivi nove anni la cosa restò sepolta nell'oblio. Ma nel 1878 alla Esposizione di Parigi don Marcelino era rimasto fortemente affascinato dalla visita al museo archeologico, dove nelle grandi teche di cristallo aveva avuto modo di osservare resti e graffiti delle età glaciali. (L'ultima è finita circa 12.000 anni or sono). Tornato a casa, don Marcelino si era informato presso esperti e studiosi per sapere dove anche lui avrebbe potuto rintracciare resti e artefatti dell'era glaciale. Aveva allora deciso di riaprire l'accesso alla caverna che era tornato a visitare armato di spada e torcia. I primi scavi furono deludenti: non portò alla luce nulla. Finalmente, dopo oltre un anno di lavoro, la sua pazienza era stata premiata con la scoperta di un'ascia e di alcune pietre lavorate usate come punte da freccia. La scoperta rinnovò le sue energie. Gli scavi ripresero con vigore. Così un giorno, la figlioletta Maria che era con lui nella caverna, aveva preso a chiamarlo tutta eccitata. La bimba, grazie al suo corpicino, si era infilata in un recesso che il padre non aveva notato perché posto troppo in basso. Sulle pareti la bambina diceva di scorgere rappresentazioni di tori in carica. Dapprincipio Marcelino non fu in grado di scorgere niente, ma una volta avvicinata la candela alla parete, aveva immediatamente riconosciuto l'occhio di un bisonte. 

Una perlustrazione più attenta rivelò che tutta la parete dell'anfratto era graffita con disegni di bisonti, mucche, tori, raffigurati in tutte le posizioni possibili. Il primo che don Marcelino riuscì a scorgere interamente era coricato su un fianco, nell'atto di accasciarsi morto a terra. Ma non era tutto, perché anche le altre pareti e il soffitto risultavano completamente graffiti. Toccandoli si rese conto che il pigmento colorato era ancora umido. Sostenuto dall'amico professore e archeologo Vilanova, Marcelino non esitò ad annunciare al mondo la sua straordinaria scoperta. Curiosi e visitatori - compreso il re di Spagna - cominciarono a sciamare a frotte nelle grotte (oggi meglio note come grotte di Altamira). Quando però Marcelino si era recato al congresso archeologico di Lisbona sulla preistoria, era venuto a sapere, con sua grande costernazione, che l'opinione accademica considerava la sua scoperta e i suoi graffiti un falso. Non c'era luminare che valutasse attendibili le sue testimonianze. Il libro pubblicato non venne accolto da nessuno. Si diceva che gli antichi artisti non avrebbero mai potuto dipingere in quel modo e con quello stile. Di certo si era al cospetto di una truffa colossale. Il più acerrimo contestatore di don Marcelino, il Cartailhac, rinomato esperto di preistoria, arrivò addirittura a negargli l'iscrizione al congresso di archeologia che si sarebbe tenuto ad Algeri. Qualche anno dopo anche il Cartailhac scoprì alcune grotte a Les Eyzies, nella valle del Vézère, portando alla luce alcune pitture rupestri del tutto simili a quelle di Altamira. Ma era troppo tardi. Quando era andato ad Altamira per portare le sue scuse a don Marcelino, aveva trovato la figlia Maria, ormai divenuta grande, alla quale non restò che fargli melanconicamente vedere la tomba del padre. Questa storia, emblematica del comportamento dei cosiddetti "esperti", ci è servita come preludio per raccontare un'altra avventura iniziata nel 1924, quando una mucca era precipitata in una grotta nel sud della Francia. Il fatto era accaduto nel terreno della famiglia Fradin, in una fattoria di Glozel, località non distante da Vichy. Già al tempo della prima guerra mondiale i Fradin avevano portato alla luce nei loro campi alcuni frammenti di ceramica; ora, perlustrando la grotta in cui era precipitato l'animale, avevano scoperto una "specie di tomba", contenente vasellame e tavolette incise. 
Il pavimento ovale era ottenuto con mattonelle, su alcune delle quali si distingueva ancora una sorta di strato vitreo, mentre qua e là erano stati trovati altri ammassi vetrosi. Un esperto locale aveva spiegato ai Fradin che molto probabilmente avevano portato alla luce un sito crematorio, cosa che, fra l'altro, rendeva ragione della presenza dei granuli vitrei, anche se a seguito di ulteriori visite, il sito sembrò risalire a tempi più recenti, a una fornace romana se non addirittura medievale. L'anno seguente, un medico di Vichy di nome Morlet, pure lui archeologo appassionato, si era recato alla fattoria. Di recente aveva portato alla luce uno scheletro nel suo giardino di casa. Quando i Fradin si lamentarono con lui dicendogli che intercedesse per loro presso il comune della città affinchè li sollevasse dal pagamento dei diritti di scavo, Morlet fece l'errore di offrirsi di acquistare lui i loro diritti. Avrebbero potuto ovviamente continuare a godere del terreno, ma sarebbe stato meglio circondare la parte interessata dagli scavi con una staccionata. Fu un grave errore perché questo fu il primo motivo di accusa mosso ai Fradin dai loro detrattori: avevano inscenato una colossale farsa solo per guadagnare soldi. Accusa infondata, perché fino all'arrivo del dottor Morlet, i Fradin non avevano tratto mai un quattrino dalla loro scoperta archeologica. Morlet e la famiglia Fradin diedero così insieme il via agli scavi nel terreno, presto conosciuto come il "campo del morto". Sin dall'inizio venne alla luce una varietà impressionante di oggetti fra cui ossa lavorate, disegni di renne su pietra e strani segni che parevano scrittura. 

Ed in effetti, vennero trovate molte tavolette iscritte; ma anche volti graffiti e la figura di un uomo a cavallo di un animale. Lo scrittore francese Robert Charroux, i cui libri sugli antichi misteri avevano trovato in Erich von Daniken un estimatore, nel 1969 ebbe a dichiarare in via confidenziale: «Sappiamo ben poco sulla civiltà di Glozel, salvo che esisteva certamente prima del grande diluvio, il grande cataclisma che sigillò le grotte di Lascaux e le necropoli di Glozel appunto, dal momento che a causa del disastro non si salvò nessuno». Secondo Charroux la civiltà di Glozel fiorì attorno al 15.000 a.C., vale a dire attorno alla fine dell'ultima era glaciale. Era il periodo della cosiddetta cultura magdaleniana, quello a cui le pitture rupestri di Altamira e Lescaux (scoperte nel 1940) sembrano appartenere. Poiché i cacciatori e i pescatori di questo periodo erano letteralmente sommersi da abbondanza di cibo, si registrò una vera e propria esplosione demografica, col trasferimento di molti nuclei umani sulle palafitte. Se Glozel - come Charroux ritiene - è da ascrivere a questo periodo, è allora probabile che le numerose tavolette incise venute alla luce raccontino la sua storia, supportando l'ipotesi di una civiltà molto più antica di quanto crediamo: teoria che offrirebbe nuovi spunti e argomenti per coloro che sostengono la tesi degli "antichi astronauti". Ma lo studio archeologico delle ceramiche di Glozel ha vanificato questa possibilità; non da ultimo, inoltre, sappiamo che i resti ceramici più antichi mai rintracciati al mondo possono risalire al massimo a 9000 anni or sono in Giappone e poco dopo in Europa. Su alcuni manufatti ceramici di Glozel compaiono teste di civette, gli stessi motivi che si rintracciano nella ceramica ascrivibile all'Età del Bronzo (attorno al 2000 a.C.). Lo stesso Morlet, d'altro canto, aveva datato certe pietre appuntite al periodo Neolitico (la cosiddetta età della pietra nuova o lavorata) circoscrivibile attorno al 9000 a.C. Se mai questa ipotesi fosse corretta, vorrebbe dire che l'invenzione della scrittura non risalirebbe al Medio Oriente (Sumer) come normalmente creduto attorno al 1500 a.C., ma in Francia circa 5000 anni prima. Una eminente autorità in merito è stato il professor Salomon Reinach, autore di un best-seller sulla storia delle religioni intitolato Orfeo. La prima reazione davanti ai reperti di Glozel era stata di rigetto: tutti falsi. In realtà, quando si era recato a Glozel si era decisamente ricreduto, arrivando a mutare opinione. Anche in questo caso gli scettici non tardarono ad intervenire. Qualcuno arrivò persino a dire che Reinach aveva deciso di abbracciare la genuinità dei reperti di Glozel perché, combinazione, sostenevano in pieno le sue teorie come, per esempio, l'idea che le renne avessero abitato la Francia, come molti altri archeologi credevano, e che la Francia e non altri paesi fosse stata la culla della civiltà. Ad ogni buon conto, mutata opinione, Reinach aveva dichiarato di accettare i ritrovamenti come genuini, suscitando attorno alla questione un interesse mondiale che trasformò Glozel in una attrazione turistica fra le più ricercate. Ma le opposizioni non cessavano. Un gruppo di archeologi disse che si trattava di un inganno perpetrato dalla famiglia Fradin, che dopo aver realizzato i manufatti li aveva sepolti per simulare un ritrovamento archeologico. Quando vennero alla luce altre tombe ritenute altrettanto sospette, gli oppositori dissero che era per lo meno singolare che in tante migliaia di anni le aperture di accesso non si fossero ostruite. Venne poi resa pubblica la testimonianza del direttore del Museo archeologico di Villeneuve-sur-Lot, il quale dichiarò che un giorno, trovato per caso rifugio in un granaio abbandonato, aveva trovato alcuni manufatti e oggetti simili a quelli di Glozel non ancora finiti e alcune tavolette di terracotta ancora da cuocere. Era evidente che se questo fosse stato confermato, tutto sarebbe saltato in aria. Ma anche in questo caso c'era un vizio e un sospetto, messo in risalto dai sostenitori dell'autenticità della civiltà di Glozel: era normale che il direttore di un museo avesse buoni motivi per cercare di sminuire, per non dire “ridicolizzare”, le conquiste e le scoperte di un concorrente. Nel 1927, per cercare di fare chiarezza, una commissione scientifica di esperti inviata dal Congresso internazionale archeologico fece visita a Glozel. Il parere fu decisamente negativo, con la precisazione che, tutto sommato, i reperti non erano poi così antichi. Anche la polizia si era scomodata. Prelevati alcuni campioni, li aveva spediti a Parigi, presso il laboratorio di analisi del suo centro specialistico. Qui Reinach si era fatto in quattro per riuscire, tramite l'aiuto di un agente svedese, un certo Soderman, a far spedire gli oggetti da valutare al laboratorio di Stoccolma. La risposta segnalò che il contenuto organico delle ossa era inferiore a quello di un osso recente. Il rapporto della polizia parigina, invece, riferiva che gli oggetti rinvenuti a Glozel davano segno di essere decisamente più freschi, e addirittura la testa di un'ascia sembrava lavorata con uno strumento e non scalfita a mano. Malgrado tutte queste pesanti osservazioni, i sostenitori di Glozel non demordevano. Quando venne accusato di falso e frode, Emile Fradin fece causa e vinse; gli venne riconosciuta come indennità la cifra simbolica di un solo franco. La controversia comunque non si placò, anche se - come era stato per il caso di Altamira - era il senso di scetticismo a prevalere, tanto che l'opinione pubblica si orientò decisamente sull'ipotesi che i reperti di Glozel fossero dei falsi. Quando nel 1953, l'adesso celeberrimo "cranio di Piltdown" venne riconosciuto come falso, furono in molti ad accostare a questo evento i fatti di Glozel. Questo perché anche nel caso della civiltà di Glozel si era a lungo parlato di anello mancante - nella fattispecie il collegamento non ancora scoperto fra i cacciatori dell'Età della Pietra e gli agricoltori sedentari del Neolitico - un buco archeologico a cui gli esperti si riferivano parlando di "antico iato". Si credeva che i cacciatori dell'Età della Pietra avessero seguito la ritirata verso nord dei grandi branchi di renne, mentre gli agricoltori stanziali del Neolitico avevano trovato dimora altrove, probabilmente in Asia. Reinach era arciconvinto - e a ragione, come si venne poi a scoprire - che questi eventi non erano mai accaduti e che molto più semplicemente gli agricoltori del Neolitico avevano poco alla volta scalzato e sostituito i cacciatori-raccoglitori dell'Età della Pietra; in questo senso la civiltà di Glozel colmava lo iato, la lacuna. Ma, proprio come l'anello mancante evolutivo umano, allo stesso modo lo iato di civiltà si dissolse in una bolla di sapone, al punto che il caso di Glozel si trasformò da sospetto a irrilevante. Nel 1974, Emile Fradin - che all'epoca della scoperta era appena diciassettenne - annunciò ai mass media che alcuni esami scientifici condotti in Danimarca sui reperti di Glozel ne avevano dimostrato la piena autenticità.

 La tecnica usata era stata quella della termoluminescenza. Quando la ceramica viene cotta, rilascia in libertà degli elettroni che lasciano delle tracce radioattive nella terracotta lavorata. Dopo, gli elettroni dispersi vengono progressivamente recuperati dalla radioattività. Se la pasta ceramica è stata cotta fra i 300 e i 500°C, è in grado di rilasciare una certa luminosità risultante dalla liberazione degli elettroni. Maggiore è la luminosità irradiata, più antico è il manufatto esaminato. Alcuni campioni rinvenuti a Glozel erano dunque stati spediti al dr. Hugh McKerrel del Museo nazionale scozzese di antichità e al dr. Vagn Mejdahl della Commissione danese per l'energia atomica. Valutata la termoluminescenza delle ceramiche di Glozel, avevano concluso che era stata cotta all'incirca al tempo di Cristo, qualche pezzo forse 800 anni prima. Datazione che, ovviamente, contraddiceva quella proposta da Reinach che parlava di ceramica neolitica; ma demoliva anche le accuse degli oppositori quando sostenevano che gli oggetti erano stati ottenuti in una fornace della fattoria dei Fradin. Allo stesso periodo vennero anche associate alcune tavolette con segni che facevano pensare a una misteriosa scrittura. Scoppiò una feroce polemica. Gli archeologi accusarono i fisici di dabbenaggine e superficialità. La BBC non si lasciò sfuggire l'opportunità e decise di inviare ancora una volta alcuni esperti a Glozel per dare un'occhiata attenta. Ne venne fuori un'altra soluzione ancora, in grado di complicare ulteriormente il già intricato intreccio. Se i primi reperti esaminati risalivano dai 2000 ai 2800 anni or sono, allora gli ultimi esemplari di ceramica avrebbero dovuto risalire al periodo in cui la Gallia (l'odierna Francia) era occupata dai Romani. Risultò che non era affatto così, si trattava di qualcosa sui generis, di unico e distinto. E così il mistero continuava a persistere. Era dunque Glozel un'altra "bufala" come il cranio di Piltdown? È senz'altro una conclusione tentatrice, ma se decidiamo di accettarla dobbiamo ignorare alcuni fatti che attesterebbero l'esatto contrario. Charles Dawson, l'uomo che disse di aver trovato il teschio di Piltdown, era un archeologo dilettante e poteva avere qualche motivo per inscenare una truffa (anche se, a tutt'oggi, non si sa ancora quale avrebbe potuto essere). Ma quando il giovane Émile Fradin e il nonno avevano scoperto la prima "tomba" (o, meglio, la fornace vitrea) non avevano alcun motivo per ingannare e se, poi, è vero che le loro scoperte iniziali risalivano addirittura al tempo della prima guerra mondiale, questo punto diventa ancora più importante. Non cercarono mai di trarre guadagni e profitti dal ritrovamento ed era stato soltanto un anno dopo, quando sulla scena era comparso il dottor Morlet che la famiglia Fradin aveva incominciato a considerare la possibilità di ricavare del danaro dagli scavi. Fu forse questo lo spunto che li spinse sulla strada dell'inganno? Non lo sappiamo, ma potrebbe essere possibile. Viene però spontaneo chiedersi come un contadino francese rozzo e ignorante abbia potuto realizzare tali e tanti preziosi manufatti: ceramiche, teste di ascia, figurine in osso, tavolette d'argilla graffite. Non da ultimo, c'è da osservare che un mattone con "scrittura" era stato proprio uno dei primissimi ritrovamenti. Va da sé che se questo era autentico, anche tutti gli altri scoperti dopo avrebbero dovuto esserlo. Se così fosse, la conclusione è che al tempo del grande Socrate, il centro francese di Glozel ospitava una comunità fiorente, che poteva vantare una propria, originalissima cultura. In quanto a Reinach, non possiamo dargli ragione. La scrittura non nacque per la prima volta in Francia nell'Età della Pietra. C'è però ancora una cosa da dire (vista la grande confusione): la storia ci ha spesso insegnato e fatto toccare con mano che i cosiddetti esperti sbagliano spesso e volentieri. Chissà allora che un giorno anche la famiglia Fradin non venga rivalutata, così come è già accaduto ad altri scopritori, quale per esempio il bistrattato don Marcelino.


 

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