lunedì 29 dicembre 2014

SCOPERTA UNA NUOVA GIGANTESCA CITTÀ SOTTERRANEA IN CAPPADOCIA, TURCHIA

Il 2014 si conclude con l'annuncio di quella che potenzialmente potrebbe essere la più grande città sotterranea mai scoperta. La struttura si trova a Nevşehir, nella regione centrale della Cappadocia, Turchia. Secondo le stime degli archeologi, il sito risale almeno a 5 mila anni fa.città-sotterranea-turchia-cappadocia

La regione della Cappadocia, nella Turchia centrale, ospita uno dei paesaggi più spettacolari al mondo, ricco di valli profonde e vette rocciose puntellate di case, cappelle, tombe e templi.
Tra i ritrovamenti più incredibili, ci sono intere città sotterranee ricavate nella roccia seguendo la morfologia naturale del paesaggio.
La più famosa è certamente Derinkuyu, un centro urbano sotterraneo capace di ospitare 20 mila persone. La città si sviluppava in profondità per ben undici livelli, contando 600 ingressi e molti chilometri di gallerie di collegamento tra i vari ambienti.
Tuttavia, il record di Derinkuyu potrebbe essere soppiantato da un nuovo centro urbano sotterraneo recentemente scoperto, sempre nella regione di Nevşehir. Gli archeologi affermano che hanno motivo di credere che il nuovo sito, una volta portato completamente alla luce, sarà la più grande città sotterranea mai scoperta.città-sotterranea-turchia-cappadocia-2
Secondo l’Hurriyet Daily News, si tratta della più grande scoperta archeologica del 2014, rinvenuta nel corso di un progetto di trasformazione urbana realizzato dalla Turkey’s Housing Development Administration (TOKİ).
Il sito è stato scoperto mentre si stavano cominciando a scavare le fondamenta per la costruzione di nuove abitazioni. “Si tratta di una città sotterranea sconosciuta. Quando alcune aree sono venute alla luce, abbiamo fermato i lavori”, racconta Mehmet Ergün Turan, capo del TOKİ.
“La città sotterranea si trova all’interno del progetto urbano di trasformazione”, spiega Hasan Ünver, sindaco di Nevşehir. “Abbiamo cominciato gli scavi nel 2012. Le prime gallerie sono venute alla luce nel 2013”.
Il dedalo di gallerie si estende per almeno 7 chilometri, collegando abitazioni e templi nascosti. Si stima che il sito risalga a circa 5 mila anni fa.
I dettagli su come sia stata effettuata la datazione del sito non sono ancora stati resi noti. Tuttavia, i ricercatori hanno segnalato il recupero di più di quaranta reperti trovati all’interno delle galleria, dai quali hanno ottenuto una stima di massima. Inoltre, numerosi altri siti simili della Cappadocia risalgono allo stesso periodo.
Con questa nuova scoperta, la Cappadocia si conferma come una delle regioni con la presenza dei siti archeologici più interessanti del pianeta. Si calcola un’area di circa 100 chilometri quadrati interessata da più di 200 villaggi sotterranei e città, piene di passaggi segreti e templi antichi. La città appena scoperta potrebbe mettere in ombra quanto finora conosciuto della regione.

sabato 27 dicembre 2014

L’ENIGMA DELLE SFERE PRECOLOMBIANE DEL COSTA RICA

Ecco uno dei misteri più sconcertanti dell'America Precolombiana: una collezione di oltre trecento petrosfere che si trovano in Costa Rica, nell'area del delta del Diquís e sull'Isla del Caño. Localmente sono note come Las Bolas. Chi le ha realizzate, quando e, soprattutto, perché?

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Uno dei misteri più difficili da decifrare è stato scoperto in Costa Rica, sull’Isla del Caño.
Nel 1930, la United Fruit Company era intenta a piantare numerosi alberi di banane nella regione, quando gli operai trovarono una serie di enigmatiche sfere di pietra perfette, tutte di dimensioni diverse che potevano arrivare a pesare fino a 16 tonnellate con un diametro di due metri.
Le petrosfere erano realizzate in granodiorite solida, una roccia ignea intrusiva della famiglia del granito, molto dura da lavorare. Le misteriose sfere risultavano tagliate, modellate e poi lucidate con molta cura.
Nel corso degli anni, la collezione di sfere ha raggiunto la ragguardevole cifra di 300 unità. A livello locale, sono conosciute semplicemente come Las Bolas (le Palle) e oggi decorano alcuni edifici pubblici del Costa Rica, come l’Asamblea Legislativa, ospedali e scuole.
Alcune di esse sono conservate nei musei nazionali. In alcuni casi, è possibile trovarle come decorazione dei giardini di uomini ricchi e potenti, a voler sottolineare il proprio status symbol.
Sulla loro autenticità non ci sono ormai più dubbi, tanto che l’UNESCO, nel giugno del 2014, le ha inserite nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Ma chi le ha realizzate e perché?
Rese celebri dalla sequenza iniziale del film “I predatori dell’arca perduta”, nella quale appaiono, “las bolas” rappresentano un vero mistero per gli studiosi che da anni cercano di capire la loro origine. Le più antiche potrebbero risalire intorno al 600 d. C. e tra le teorie più disparate c’è chi le associa alla scomparsa di Atlantide.
“Non sappiamo perché furono costruite e chi le fece non lasciò nessun documento scritto. Abbiamo solo dati archeologi che permettono di ricostruire il contesto, la cultura e le persone che le crearono si estinsero poco dopo la conquista spagnola”, spiega l’antropologo americano John Hoopes, dell’università del Kansas, incaricato dall’UNESCO allo studio della loro conservazione e del loro valore.
L’unico metodo disponibile per la datazione delle pietre sferiche è la stratigrafia, ma la maggior parte di esse non si trova più nella loro posizione originaria. Dunque, le sfere sono comunemente attribuite ai Diquis, un cultura pre-colombiana indigena del Costa Rica che fiorì dal 700 al 1530 d.C.
Si ritiene che la pietra per realizzare le sfere sia stata estratta da una cava posizionata sulla catena montuosa di Talamanca, a più di 80 km di distanza dalla loro posizione finale. Sfere incomplete non sono mai state trovate.
Nel 1940, Samuel K. Lothrop ha studiato le sfere di granodiorite. Nelle sue conclusioni, suggerì che le pietre erano state posizionate in allineamenti astronomicamente significativi. Purtroppo, ad oggi non c’è modo di verificare se la teoria di Lothrop è corretta.
Oltre alle teorie scientifiche, sembra doveroso riportare anche i miti che si raccontano su queste enigmatiche sfere rocciose. Alcune leggende locali affermano che gli abitanti nativi erano in possesso di una tecnica in grado di ammorbidire la roccia, consentendogli di plasmarla e modellarla a loro piacimento.
Una leggenda simile si racconta anche sui costruttori di Sacsayhuamán e di Cuzco. La leggenda afferma che gli antichi fossero in possesso di un particolare liquido ottenuto dalle piante, capace di rendere la pietra morbida e facile da modellare.
Nella cosmologia Bribri, condivisa dalla cultura Cabecares e da altri gruppo ancestrali americani, le sfere di pietra vengono indicate come le “palle di cannone di Tara”. Tara, o Tlatchque, era venerato come dio del tuono, il quale utilizzava un cannone gigante per sparare i suoi colpi verso Serkes, divinità dei venti e degli uragani, al fine di scacciarlo via dai suoi possedimenti.
Altri ancora ritengono che le sfere di roccia del Costa Rica siano i resti dell’antica cultura atlantidea che una volta fioriva sul tutto il pianeta. Le rocce non sarebbero state fabbricate dai nativi americani, ma semplicemente ricevute in eredità e custodite a ricordo dell’Età dell’Oro.
Chiaramente, come sempre avviene per queste “anomalie” archeologiche, si tratta di ritrovamenti che mal si adattano alla visione tradizionale e lineare della storia dell’umanità, come nel caso del Muro di Bimini, le Piramidi sommerse del Giappone e le strutture megalitiche che ogni occupano angolo del nostro pianeta.
Il grande dono di questi ritrovamenti enigmatici è la domanda: ancora possiamo chiederci, grazie a questi misteri irrisolti, chi siamo, da dove veniamo e, soprattutto, dove stiamo andando.

mercoledì 17 dicembre 2014

UN SISTEMA TELEFONICO DI 1200 ANNI FA, INVENTATO DA UNA CULTURA CHE NON CONOSCEVA LA SCRITTURA!

Non avevano la scrittura, ma hanno inventato il telefono! Parliamo dei Chimù, una civiltà sorta più di 1200 anni fa, diventata famosa soprattutto per la loro particolare ceramica monocromatica e la raffinata lavorazione del rame, dell'oro, dell'argento e del tumbago (lega di rame ed oro). Ora, grazie ad un reperto dimenticato della collezione del Museo Nazionale Smithsonian della American Indian, nel Maryland, scopriamo che questa antica cultura precolombiana aveva inventato anche il telefono!

cultura chimu

La nostra società moderna è orgogliosa dei recenti progressi scientifici e delle notevoli conquiste tecnologiche.
Negli ultimi anni, non c’è dubbio che si fatta molta strada in questo senso. Ogni giorno veniamo a sapere dello sviluppo di nuovi gadget tecnologici che hanno lo scopo di migliorare la nostra vita.
Eppure, ogni tanto (sempre più spesso, in realtà), ci imbattiamo in alcuni manufatti antichi dimenticati che ci costringono a rivalutare il nostro grado di progresso.
Siamo davvero molto più intelligenti dei nostri antenati? Forse dovremmo dare agli antichi umani il riconoscimento che meritano? Forse alcune delle nostre invenzioni non sono che reinvenzioni di cose che già esistevano in un lontano passato.
Il telefono, per esempio. L’apparecchio telefonico è stato ufficialmente inventato nel 1870, quando due inventori, Elisha Gray e Alexander Graham Bell, svilupparono indipendente il dispositivo in grado di trasmettere una conversazione elettricamente.
Entrambi gli inventori si precipitarono ai rispettivi uffici brevetti, a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Tuttavia, cronologicamente fu Alexander Graham Bell a registrare per primo l’invenzione. Poco dopo, Grey e Bell ingaggiarono una lunga battaglia legale sulla paternità dell’invenzione, che alla fine vide Bell vincitore.
Quindi, la storia occidentale riconosce in Bell l’inventore ufficiale del telefono. Però, forse non tutti sanno che in realtà il primato sulla paternità del telefono spetta ad una popolazione precolombiana vissuta tra l’800 e il 1470 d.C., conosciuta come Civiltà Chimù, che diede vita al Regno di Chimor.
Benché non avessero un sistema di scrittura, i Chimù svilupparono uno dei primi esempi di ingegno nell’emisfero occidentale composta da zucche e spago, configurate in modo da ottenere un dispositivo di comunicazione simile al nostro telefono.
Il dispositivo giaceva dimenticato nel deposito del National Museum of American Indian (NMAI), affiliato allo Smithsonian Institute, in un cartone a prova di umidità. L’oggetto è venuto fuori un po’ per caso, attirando l’attenzione dei curatori del museo che hanno deciso di rimetterlo in mostra per permettere ai visitatori di conoscere questa straordinaria invenzione.
Questa meraviglia protoingegneristica si compone di due ricevitori di zucca ricoperti di resina, una membrana di pelle cucita alla base dei ricevitori e una corda di cotone lunga 23 metri quando tesa.
“Si tratta di un oggetto unico. Non ne sono stati scoperti altri. Proviene dal genio di una società indigena che non aveva nessuna lingua scritta”, spiega Ramiro Matos, antropologo e archeologo specializzato nello studio della Ande centrali e curatore del NMAI. “Purtroppo, non sapremo mai qual è stata l’intuizione iniziale dietro la sua creazione”
Il passato recente del manufatto è altrettanto misterioso. In qualche modo, non si sa in quali circostanze, è giunto nelle mani di un aristocratico prussiano, il barone Walram V. Von Schoeler, una specie di avventuriero che ha cominciato a scavare in Perù a partire dal 1930. Potrebbe essere stato lui stesso a trovare il telefono. Nel 1940 si stabilì a New York, e dopo aver accumulato un vasto insieme di reperti, alla fine distribuì la sua collezione nei musei di tutti gli Stati Uniti.

I favolosi Chimù

L’apparecchio è stato realizzato quando il Regno di Chimor si trovava all’apice del suo sviluppo. Come spiega la rivista dello Smithsonian, quella dei Chimù è stata una cultura abile e inventiva, la prima vera società ingegneristica del Nuovo Mondo, non tanto per l’artigianato e l’oreficeria, ma per lo sviluppo di complessi sistemi di irrigazione e opere idrauliche, capaci di trasformare il deserto in terreni agricoli.
La società Chimù era organizzata in maniera piramidale e i ricercatori del NMAI pensano che il dispositivo fosse in uso solo presso la casta sacerdotale. L’architettura di Chan Chan, la capitale dei Regno, mostra una zona appartata della città, a testimonianza della rigida separazione tra l’elite dominante e la classe dei lavoratori.
“Il telefono era uno strumento progettato per un livello esecutivo di comunicazione, forse per impartire ordini ai cortigiani che si trovavano nelle anticamere del potere, lì dove si prendevano decisioni cruciali e il contatto faccia a faccia con personaggi di status elevato era proibito”, spiega Matos.
Secondo la leggenda, Chan Chan fu fondata da Taycanamo, il quale arrivò dal mare.
Chan Chan era la città più grande dell’America meridionale precolombiana. I resti di questo impressionante insediamento riflettono nella sua struttura un’organizzazione politica e sociale molto rigorosa, sottolineata dalla divisione in nove ‘cittadelle’ o ‘palazzi’ che costituiscono delle unità indipendenti, distribuite su un’area di circa 6 km².
Le pareti degli edifici erano riccamente decorati con fregi raffiguranti motivi astratti e soggetti antropomorfi e zoomorfi. Attorno ai nove complessi si sviluppavano i quattro settori destinati alla produzione tessile e alla lavorazione del legno e dei metalli. Ampie aree agricole e un sosfisticato sistema di irrigazione sono stati trovati nelle zone esterne della città.
Sulla base di ciò che è noto, nel 1470 i Chimù furono conquistato dagli Inca. Il Regno di Chimor fu l’ultimo ad avere qualche possibilità di fermare l’avanzata Inca. Ma la conquista Inca fu fatta partire nel 1470 da Túpac Yupanqui, che sconfisse l’imperatore locale Minchancaman, discendente di Tacaynamo, e fu completata da Huayna Cápac quando salì al trono nel 1493
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venerdì 12 dicembre 2014

L’ENIGMA DELLA SFINGE E LA SUA CONTROVERSA DATAZIONE

Scolpita sul luogo nella pietra calcarea, la Sfinge della Piana di Giza è una tra le più grandi statue al mondo. L'enigmatica statua leonina è oggetto di accesi dibattiti nella comunità scientifica, la quale non riesce ancora a trovare un parere univoco sulla sua datazione.

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La sfinge è una figura mitologica raffigurata come un mostro con il corpo di leone e testa umana (androsfinge).
La sua icona più famosa, tra le più grandi mai realizzate, si trova in Egitto, sulla piana di Giza, area che condivide con le famose tre piramidi.
Scolpita in loco nella pietra calcarea, la Sfinge di Giza è la più grande statua monolitica tra le sfingi egizie: lunga 73,5 metri, alta 20,22 metri e larga 19,3 metri di cui solo la testa è 4 metri. Il monumento fu probabilmente ricavato da un affioramento di roccia, mentre alcune parti sono state costruite o riparate con l’aggiunta di blocchi di roccia tagliati.
Comunemente, egittologi e storici ritengono che la Sfinge sia stata costruita durante il regno del faraone Chefren, intorno al 2500 a.C., in concomitanza con la costruzione delle piramidi.
Eppure, alcuni ricercatori ritengono che la Grande Sfinge di Giza potrebbe essere migliaia di anni più antica di quanto comunemente ritenuto, un dubbio che serpeggia nella comunità archeologica da decenni e che alimenta un acceso dibattito.
All’inizio degli anni ’90, il dottor Robert M. Schoch, geologo presso la Boston University, è stato uno dei primi a mettere in discussione il dogma sulla datazione della Sfinge, annunciando che il monumento potrebbe essere stato realizzato tra il 9000 e il 5000 a.C., anticipando la cultura dinastica egiziana.
“Nel 1990, ho viaggiato in Egitto con il solo scopo di esaminare la Grande Sfinge da punto di vista della geologia”, spiega Schoch nell’articolo comparso su Epoch Times. “Ero convinto che la datazione degli egittologi fosse corretta. Ma, ben presto, ho scoperto che le prove geologiche non erano compatibili con quello che gli egittologi dicevano”.
Infatti, i rilievi geologici eseguiti sulla Sfinge sembrano puntare a tempi decisamente più remoti. Sul corpo della sfinge sono presenti evidenti segni di erosione dovuti all’esposizione continua all’acqua piovana, ipotesi accettata dalla comunità scientifica.
L’egittologia ufficiale non sa come spiegare questo fatto, considerando che le ultime piogge in grado di sortire tali effetti nella regione di Giza risalgono alla fine dell’ultima glaciazione.
“Ho riscontrato caratteristiche di erosione pesante, concludendo che tale fenomeno potrebbe essere stato causato solo da piogge intense”, spiega Schoch. “Il problema è che la Sfinge siede sul bordo del deserto del Sahara, una regione che è stata decisamente arida negli ultimi 5000 anni”.
Schoch ha avuto la possibilità di confrontare diverse strutture vicine risalenti a diversi periodi della storia egizia. Ebbene, queste strutture mostrano esempi precisi di erosione dovuta al vento e alla sabbia, fenomeno che differisce notevolmente rispetto all’erosione causata dall’acqua.
Si è tentato anche di spiegarne la causa con le esondazioni del Nilo, ma i segni dell’erosione presenti, che presentano un’erosione più marcata in alto e meno marcata in basso, sono incompatibili con quelli che causerebbe un’erosione dovuta all’acqua del fiume, che causerebbe segni di erosione più evidenti alla base della statua.
Tanto è bastato per far concludere al dottor Schoch che la Sfinge deve risalire ad un periodo molto più antico rispetto a quello indicato dall’egittologia dogmatica. A suo parere, la Sfinge “deve” risalire ad un periodo compreso tra il 9000 e il 5000 a.C., quando la zona era molto più interessata da precipitazioni intense.
Curiosamente, la più antica raffigurazione di sfinge conosciuta (una scultura) è stata trovata vicino a Göbekli Tepe in Turchia, nel sito di Nevali Çori, e viene datata al 9500 a.C.
Inoltre, ad un esame più attento, Schoch ritiene che il faraone Chefren abbia semplicemente ristrutturato la Sfinge, incorporandola nel suo complesso funerario. La Sfinge era già lì da migliaia di anni; essa potrebbe essere stata alterata per tutto il periodo dinastico dell’antico Egitto.
“È evidente a chiunque che l’attuale testa non è quella originale: essa avrebbe mostrato i stessi segni di erosione del corpo. È chiaro che è stata ri-scolpita e alterata durante i periodi dinastici. Chiaramente, nella ri-scultura la testa divenne più piccola”, continua Schoch. Egli ha suggerito che nella sua forma originale la Sfinge di Giza potrebbe non essere stata una sfinge, ma un leone gigantesco.
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Naturalmente, queste conclusione hanno scioccato molti scienziati, storici ed egittologi, i quali sostengono con forza che non ci sono prove di una civiltà che possa aver costruito un monumento come la Sfinge così indietro nel tempo.
Tuttavia, fin dai primi anni ’90, molti altri siti archeologici sono stati scoperti, i quali precedono ogni civiltà conosciuta. Uno di questi, guarda caso, è proprio il sito di Göbekli Tepe.

A BAALBEK LE ROVINE DI UNA CIVILTA' PERDUTA

Nella valle della Beqa', in Libano, ci sono alcune tra le più straordinarie testimonianze dell'antichità. Ma chi le ha intagliate?

Gli appassionati di archeologia misteriosa- quel settore della ricerca alternativa che vuole riscrivere la storia dell'umanità reinterpretando le scoperte archeologiche- le conoscono bene: le rovine di Baalbek, nella valle della Beqa' in Libano, sono certamente tra le più straordinarie testimonianze dell'antichità, patrimonio dell'umanità per l'Unesco. Specie quel basamento, nel quale sono incastonati tre blocchi giganteschi pesanti circa 800 tonnellate l'uno. Chi li ha intagliati? Chi li ha trasportati? Chi li ha messi in posa?

Domande alle quali gli storici e gli archeologi accademici rispondono senza alcun dubbio: gli antichi Romani. Sarebbero stati loro a squadrare i megaliti nella cava distante un chilometro e a portarli nel luogo in cui edificarono il grandioso complesso templare di cui ancora oggi rimangono importanti resti. In particolare, il tempio di Giove Eliopolitano, costruito proprio su quel basamento ai tempi di Nerone.
Punto sul quale i ricercatori alternativi si oppongono tenacemente: i Romani, dicono, trovarono già quelle mura ciclopiche, costruite da una qualche civiltà precedente. Semplicemente, le sfruttarono per innalzare al di sopra di esse i loro santuari nella città che in quel periodo era chiamata Heliopolis ed era il centro principale della provincia di Siria. Lo pensa anche Graham Hancock, notissimo esponente di questa corrente di pensiero.
Nel luglio scorso, lo scrittore britannico ha visitato Baalbek e ha visto l'ultima scoperta: nella cava di pietra utilizzata dagli antichi costruttori, è stato individuato un nuovo, eccezionale pietrone appena sbozzato e poi abbandonato in sito. È il terzo del genere trovato negli anni. Il più famoso è quello denominato "la pietra della gestante"- peso stimato, 1000 tonnellate- che emerge dal terreno per oltre due terzi. Accanto a questo mastodontico masso si sono fatti immortalare migliaia di turisti.
Il secondo megalite, intagliato ma rimasto nella roccia, è ancora più grande: secondo le stime, peserebbe 1200 tonnellate. Eppure, l'ultimo- quello appena riportato alla luce- supera tutti gli altri. Secondo un'equipe dell'Istituto di Archeologia di Germania, è lungo 19, 60 metri, largo 6 e alto almeno 5, 5. Se fosse stato completamente tagliato, avrebbe avuto un peso record: 1650 tonnellate.
Secondo Hancock, però, l'archeologia ufficiale sbaglia a pensare che siano stati i Romani a scavare questi megaliti e poi a dimenticarli lì, per una qualche ragione sconosciuta. A suo avviso, si tratta invece dell'opera di una civiltà di cui non conserviamo memoria, sviluppatasi molto tempo prima, forse 12 mila anni fa. Anzi, suggerisce un legame tra questi reperti e Gobekli Tepe, la località turca nella quale è stato scoperto un antichissimo e ancora misterioso complesso templare talmente vasto che ci vorranno ancora molti anni prima che sia interamente dissotterrato.
Nell'articolo pubblicato sul suo sito, che costituisce un'anticipazione del libro in lavorazione "Magicians of the Gods", Graham Hancock scrive: " Io ipotizzo che stiamo vedendo l'opera dei sopravvissuti di una civiltà perduta, che i Romani costruirono il loro Tempio di Giove su un basamento preesistente antico di 12 mila anni e che essi non erano al corrente di quei giganteschi megaliti intagliati nella vecchia cava perché ai loro tempi erano coperti da uno strato di detriti ( proprio come ne era ricoperto finora l'ultimo blocco appena trovato)".
In pratica, dice l'autore, se li avessero scavati i Romani, non avrebbero lasciato il lavoro a metà e li avrebbero messi in posa. Se non avessero potuto completarli, in virtù del loro senso pratico, avrebbero comunque trovato un'altra soluzione: li avrebbero spaccati e riutilizzati in pietre più piccole. Invece, evidentemente, i Romani ne ignoravano l'esistenza e quei blocchi eccezionali sono rimasti lì.
Hancock è altrettanto certo che non furono loro né ad intagliare, né ad utilizzare i tre grandi massi collocati nel basamento del tempio, noti con il nome greco trilithon. "Sono cosciente che megaliti anche più grandi di questi, ad esempio la cosiddetta Pietra Tuono di San Pietroburgo, sono stati spostati e posizionati sulla superficie piana in tempi storici, ma spostare e posizionare tre megaliti di 800 tonnellate ad una altezza di circa 6 metri dal terreno, come nel caso di Baalbek, è completamente diverso."
Ma se i grandi costruttori del Colosseo e degli acquedotti- molti tuttora funzionanti- non possedevano la tecnologia in grado di mettere in posa quei blocchi giganteschi, come poteva possederla una civiltà ancora più antica? Per Hancock, è possibile, se si pensa ad una cultura evoluta, di raffinato livello tecnico, con conoscenze molto avanzate, annientata da una catastrofe globale: la fine dell'era glaciale.
Circa 10 mila anni fa, il cambiamento climatico fece sciogliere in modo molto rapido la spessa coltre di ghiaccio che ricopriva gran parte dell'emisfero nord. Tutta quell'acqua fece salire all'improvviso il livello dei mari e ricoprì le coste, trasformando per sempre il profilo dei continenti. Si verificarono ovunque alluvioni di dimensioni talmente devastanti, da rimanere impresse per sempre nella memoria collettiva dell'umanità.
"Quando le diverse culture nel mondo parlano del diluvio universale, a me sembra del tutto ragionevole pensare che stiano parlando di questi eventi. Perchè fu davvero un diluvio", mi ha spiegato durante un'intervista. "L'acqua del mare si innalzò per 120 metri e tutto rimase sommerso. Le terre lungo la linea costiera sprofondarono, parlo di milioni di chilometri quadrati di territorio che furono cancellati.
Nei cosiddetti miti- che si possono ritenere memorie di fatti reali- c'è il ricordo di un diluvio globale. È davvero avvenuto, la scienza concorda. Però, nei cosiddetti miti, c'è anche il ricordo di una precedente civiltà avanzata che fu distrutta. Su questo invece la scienza non è d'accordo. Io preferisco ritenere plausibili tutte e due le parti del racconto. Penso che sia davvero esistita una civiltà molto avanzata."
Baalbek - con le sue pietre ciclopiche, tanto pesanti che persino una gru moderna faticherebbe a sollevarle- è una tessera di questo mosaico che modifica il quadro complessivo e che apre interrogativi sul nostro passato. Interrogativi che la storiografia ufficiale, tuttavia, preferisce non porsi

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giovedì 11 dicembre 2014

TECNOLOGIA E CHIRURGIA CRANICA IN UN VILLAGGIO DELLA CAPPADOCIA DI 10 MILA ANNI FA

Tutti gli indizi che il sito ad Asikli Hoyuk continua a inviarci, ci costringono ad ammettere l’esistenza di una civiltà, tra Paleolitico e Neolitico, tanto evoluta da assomigliare notevolmente alla nostra.Asikli Hoyuk

All’interno delle camere ‘multifunzione’, ampie mediamente sui 20 mq., sono state individuate una settantina di sepolture, quasi tutte corredate da offerte funebri di collane e braccialetti. I defunti erano seppelliti in posizione fetale all’interno di fosse create sotto il pavimento degli edifici stessi.
Asikli Hoyuk, a circa trenta chilometri da Aksaray, è un sito archeologico al centro della Cappadocia; poco conosciuto, non pare destare particolare interesse e non è nemmeno inserito come meta preminente dagli operatori turistici.
Eppure, all’alba del Neolitico, fu scelto per crearvi un importante insediamento, immerso com’era in un paesaggio vulcanico dominato da quelle che un tempo erano valli fluviali, poi trasformatesi in depositi di tufo: una zona fertile e ricca di ossidiana, due buone ragioni per convincere i nostri antenati a fermarsi, cambiando radicalmente le precedenti abitudini.
Il sito, tuttora oggetto di studio, fu individuato nel 1964 dall’archeologo Ian A. Todd, che rinvenne in strati superficiali migliaia di artefatti realizzati con l’ossidiana, segno della presenza di una notevole industria, il cui prodotto era destinato per lo più al commercio in un mercato che deve considerarsi assai vasto, abbracciando tutto il Vicino Oriente.
Una campagna di scavi sistematici iniziò solamente sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso sotto la guida di Ufuk Esin, in considerazione dell’urgenza di procedere alla mappatura completa dell’insediamento, poiché era imminente la realizzazione di una diga sul lago Mamasin, le cui acque avrebbero sommerso parzialmente il sito.
Da allora le campagne di scavo si sono susseguite quasi senza sosta, anche se oggi non sussiste più alcun pericolo di sommersione.
 Le abitazioni, costruite in mattoni crudi e per metà interrate nel suolo, sono allineate e adiacenti come una moderna città.
La presenza di pochi edifici ben più grandi rispetto alla media, possono intendersi come luoghi di aggregazione di una parte della comunità.
Poiché gli edifici sono privi di aperture sulle pareti, similmente alle abitazioni di Catalhoyuk (ma anche a quelle degli indiani Anasazi), si ritiene che l’ingresso avvenisse dal tetto piano mediante scale di legno removibili.
Un’area dedicata, a ridosso del sito, presenta ricostruzioni attendibili di queste abitazioni, realizzate con materiale e tecnica dell’epoca.
 Dall’analisi dei resti scheletrici sappiamo che la vita media dell’uomo era attorno ai cinquantacinque anni, mentre quella della donna non andava oltre i venticinque: le evidenti deformità riscontrate sulle articolazioni suggeriscono che il gentil sesso fosse impiegato anche in lavori solitamente svolti dai maschi, come il trasporto di carichi particolarmente pesanti.
Il campione ci permette inoltre di attestare al 50% la mortalità infantile; un’analoga percentuale è riservata agli scheletri che presentano evidenti segni di bruciature, a conferma che sovente, dopo il decesso, i corpi erano inceneriti in forni predisposti allo scopo (forse all’interno di santuari o templi destinati alle pratiche religiose), come d’altronde già accertato negli scavi di Cayoyu e Nevali Cori, con il rinvenimento di analoghi focolari.
Poiché ad Asikli Hoyuk non è stato ancora rinvenuto quello che potremmo definire un cimitero, per il momento si scorge la possibilità che la sproporzione tra le sepolture e il numero di abitazioni sia riconducibile a un culto funebre riservato a una ristretta classe di dignitari.

Avanguardia tecnologica

Circa 20 anni fa, si rinvenne nel sito una collana con dieci perle di agata magistralmente perforate per quasi dieci millimetri.
La scoperta induce a considerare che gli artigiani di Asikli Hoyuk avessero raggiunto un livello sorprendente di tecnologia nella lavorazione di questi manufatti, tenendo in considerazione che l’agata è una varietà di quarzo che, per la particolare durezza, si può forare ancor oggi solo con l’utilizzo di un trapano munito di punta conica di diamante.
Una semplice punta d’acciaio non riuscirebbe nemmeno a scalfire l’agata, anzi la scheggerebbe. Una simile tecnologia, addirittura risalente a novemila anni fa, non può essere assolutamente conciliabile con le conoscenze che oggi pensiamo di avere del nostro passato.
Nel frattempo, a questa magnifica collana si è aggiunto un altro stupefacente manufatto: un braccialetto d’ossidiana, rinvenuto nel 1995 e databile allo stesso periodo della collana, che oltre a presentarsi in forma quasi regolare, denota l’incredibile simmetria della cresta anulare centrale e una superficie, simile a uno specchio, accuratamente pulita e rifinita.
Realizzare questo bracciale, ora esposto al Museo Archeologico di Aksaray, richiederebbe oggi una tecnica complessa di lucidatura, ottenibile solamente con l’uso di lenti telescopiche.
Lo sostengono i ricercatori dell’Institut Français d’Etudes Anatoliennes di Istanbul e del Laboratoire de Tribologie et de Dynamiques des Systèmes di Saint-Etienne, (lo studio è stato pubblicato dal Journal of Archaeological Science nel dicembre 2011), che hanno analizzato il reperto con il metodo della tribologica multiscala, tecnica già sviluppata per l’industria automobilistica (per determinare le proprietà meccaniche della carrozzeria) e ora adattata all’archeologia.
Un ultima scoperta interessante è venuta dal ritrovamento del cranio di una giovane donna che presenta tracce della prima trapanazione al cervello finora conosciuta: anche questo reperto è custodito al Museo Archeologico di Aksaray.
Probabilmente si trattava di un intervento chirurgico, poiché è stato determinato che la tecnica fu eseguita mentre la donna era ancora in vita e il decesso sarebbe avvenuto pochi giorni dopo.
Tutti questi indizi che il sito ad Asikli Hoyuk continua a inviarci, ci costringono ad ammettere l’esistenza di una civiltà, tra Paleolitico e Neolitico, tanto evoluta da assomigliare notevolmente alla nostra.
Ora, gli scavi hanno raggiunto il livello più basso, rivelando informazioni preziose sullo stile di vita dei gruppi che hanno creato il primo insediamento circa 10.300 anni fa.
Il direttore dello scavo di Asikli Hoyuk, il professor Mihriban Ozbasaran, ha spiegato che il sito rappresenta il primo villaggio noto della Anatolia centrale e della regione della Cappadocia.
Il lavoro archeologico ha permesso agli studiosi di ricavare una grande quantità di dati importanti che mette in luce l’importanza strategica dell’Anatolia nella storia della nostra civiltà.
“Con la sua storia di 10.300 anni, Asikli Hoyuk è l’insediamento umano che ha portato importanti sciluppi tecnologici e scientifici in tutto il mondo, come ad esempio le prime attività agricole e la prima chirurgia del cervello”, conclude Ozbasaran.

martedì 9 dicembre 2014

IL LIBRO DI OERA LINDA

Nel 1876 compare a Londra un libro sconvolgente dal titolo Libro di Oera Linda”, sottotitolato “Da un manoscritto del XIII secolo”. L'editore, Trubner & Co., è uno dei più seri presenti sul mercato e non c'è alcun motivo di pensare a una falsificazione. Il fatto poi che accanto al testo in inglese venga riportato a fronte quello originale in frisone (la lingua della Frisia, la parte più settentrionale dell'Olanda) è una garanzia aggiuntiva di serietà, offrendo l'opportunità agli studiosi di verificarne l'autenticità. La cosa è lo stesso scottante, perché se ciò che sta scritto nelle pagine del libro è vero, la storia del mondo antico va completamente riveduta e corretta.


Si racconta che nel III millennio a.C., nel tempo in cui vennero innalzate le grandi piramidi e Stonehenge, nel nord dell'Europa esisteva una grande isola continente, abitata da una razza altamente civilizzata. Nel 2193 a.C. l'isola era scomparsa, svanita come l'altrettanto leggendaria Atlantide, completamente disintegrata da immense catastrofi. Molti superstiti erano riusciti a trasferire la loro civiltà altrove. Egitto e Creta compresi. E infatti nel “Libro di Oera Linda” leggiamo che Minosse, il favoloso re di Creta, costruttore del labirinto, era un frisone e che era stata questa sua civiltà a originare in seguito quella ancora più splendente di Atene. Tutto questo era sembrato così straordinario e sconvolgente che in prima battuta gli studiosi tedeschi e olandesi sorrisero fra loro, pensando a una colossale presa in giro. Anche se il trucco era stato inscenato bene e probabilmente si trattava non di un falso moderno, ma antico, vecchio di un secolo o due, cosa che l'avrebbe al massimo spostato nel tempo attorno al 1730. Un momento storico in cui riesce per davvero difficile immaginare che a qualcuno venisse in mente di mettere in atto una burla simile. Se ci riferissimo a un centinaio di anni dopo, nel pieno dell'età romantica, la cosa sarebbe forse ancora ipotizzabile, vista l'ansia di creatività e il desiderio di dare libero sfogo all'immaginazione propri del tempo. Ma è pressoché impossibile pensare che nell'algida e rigida epoca di Federico il Grande e del principe di Orange-Nassau (del tutto refrattario dal punto di vista letterario) ci fosse stato qualcuno tanto fantasioso da inventarsi un lavoro simile. Certo, è vero che un celebre falso ascritto alla fonte della poesia gaelica - i versi di Ossian, scritti in realtà da James MacPherson - nel 1760 aveva conquistato l'Inghilterra e l'intera Europa; ma se anche il Libro di Oera Linda era il frutto di un'operazione alla MacPherson, come mai era stato dimenticato in un cassettone ed era saltalo fuori solamente nel 1848? Stando a ciò che si leggeva nell'Introduzione scritta nel 1871, il libro era stato conservato presso la famiglia Linden (o Linda) da «tempo immemorabile» ed era scritto in una lingua simile al greco. L'incipit era costituito da una lettera di un tal "Liko oera Linda", datata 803 d.C., in cui l'uomo diceva che avrebbe conservato il libro «col corpo e con l'anima», poiché in esso era contenuta la storia della sua gente. Nel 1848 il manoscritto era stato ereditato da un certo C.Over de Linden - versione moderna del casato Oera Linda - quando un esimio linguista, il professor Verwijs, aveva chiesto il permesso di esaminarlo. Sin da subito egli aveva riconosciuto nel misterioso linguaggio del libro l'antichissimo frisone, una forma arcaica di olandese. La versione esaminata dal professore era una copia dell'originale datata 1256, riportata su pagine ottenute con fibra di cotone e scritta con inchiostro nero che non conteneva ossido di ferro (perché se no sarebbe diventato bruno). Stando alla introduzione (a firma del dottor J.O. Ottema) nel Libro di Oera Linda veniva raccontata la storia di una grande isola continente, chiamata Atland, posta all'incirca sulla stessa latitudine delle isole britanniche, in quello specchio di mare che noi oggi chiamiamo Mare del Nord (per farla breve, a nord delle coste olandesi). Ottema sembra immaginare trattarsi dell'Atlantide di Platone, che molti ricercatori hanno collocato da qualche parte nell'oceano Atlantico. E poiché Platone afferma soltanto che Atlantide si trovava al di là delle Colonne d'Ercole (l'attuale stretto di Gibilterra), Ottema potrebbe aver ragione. Stando al manoscritto, Atland godeva di un ottimo clima e di abbondanza di cibo e fintanto che i suoi governanti si erano mantenuti saggi e religiosi, l'isola era rimasta serenamente in pace. Il suo leggendario fondatore era stata una donna semidivina, Frya, una versione della nordica Freya, la dea lunare, il cui nome significa "signora". (In modo analogo la parola frey significa "signore"). Gli abitanti di Atland veneravano un solo dio, che si celava sotto il per noi impronunciabile nome di Wr-alda. Frya era la prima di tre sorelle. Le altre si chiamavano Lyda e Finda. Lyda aveva la pelle scura ed aveva dato origine alle popolazioni negroidi; Finda aveva la pelle giallastra, e aveva dato origine alle popolazioni orientali; Frya aveva la pelle chiara. Fino a qui siamo nella leggenda, ma il libro prosegue raccontando quella che sostiene essere una storia realmente accaduta. Nel 2193 a.C. una catastrofe immane e sconosciuta aveva colpito Atland, che era stata inghiottita dalle acque dell'oceano. La logica suggerisce che allo stesso modo avrebbero dovuto scomparire anche le isole britanniche, dal momento che erano vicinissime al misterioso continente; ma se Atland era un territorio sotto il livello del mare come gran parte dell'attuale Olanda, si comprende facilmente il perché della spaventevole, catastrofica alluvione. (Il cosiddetto Banco di Dogger dove la leggenda colloca Atland corrisponde alla parte più bassa del Mare del Nord). Secondo Platone, Atlantide era andata incontro alla sua terribile fine circa novemila anni prima. Una moderna autorità del campo, il professor A.G. Galanopoulos, ha dichiarato che le indicazioni offerte dal filosofo greco a proposito di Atlantide (quelle notizie che gli erano state tramandate dai sacerdoti egizi) sono tutte amplificate di dieci volte; per esempio, quando Platone scrive che il grande canale che stava attorno alla città reale era lungo più di diecimila stadi (oltre 1600 km) ci pone di fronte a dimensioni gigantesche, al punto che la superficie coperta dalla capitale avrebbe dovuto risultare di alcune centinaia di volte più grande di quella occupata dalle già estese Londra o Los Angeles. In base a questo ragionamento, se dividiamo 9000 per dieci otteniamo 900. I sacerdoti egizi raccontano di Atlantide al legislatore greco Solone nel 600 a.C., da questa data, aggiungendo altri 900 anni, si arriva al 1500 a.C. Questo è grosso modo lo stesso momento dell'esplosione del vulcano di Santorini (a nord di Creta), la catastrofe che sconvolse una buona metà dell'area mediterranea. Galanopoulos sostiene che Santorini era infatti Atlantide. L'unica obiezione forte consiste nel ricordare che Platone colloca il mitico continente al di là delle Colonne d'Ercole, nel qual caso Atland sarebbe un'altra isola continente. Un altro motivo per cui il Libro di Oera Linda è sempre stato snobbato è dovuto al fatto che la narrazione suona poco familiare e i nomi strani. Sotto questo punto di vista lo potremmo assimilare al Libro di Mormori o a quella straordinaria opera che si intitola Oashpe dettata sotto divina ispirazione dal medium americano J.B. Newbrought praticamente nello stesso periodo in cui il Libro di Oera Linda era dato alle stampe in Inghilterra. La differenza sta però nel fatto che mentre questi due libri vantano un'origine ispirata dalla divinità, in quello di Oera si dichiara che tutto ciò che è raccontato è storia vera. Ad ogni modo, le popolazioni che vengono citate non sono certo frutto di fantasia. In un libro successivo si parla a lungo di un prode guerriero di nome Friso, ufficiale di Alessandro il Grande (nato nel 356 a.C.) citato anche in altre cronache storiche dei popoli del nord. (Nel Libro di Oera Linda si parla parecchio di Alessandro). In queste cronache si dice che Friso giungeva dall'India. Nell'Oera Linda, l'eroe viene fatto discendere da una colonia di Frisoni stanziatasi nel Punjab attorno al 1550 a.C.; mentre il geografo greco Strabone menziona queste stranissime tribù "indiane", da lui chiamate in modo generico Germania. Nel testo si ricorda anche Ulisse e la sua ricerca alla caccia della sacra lampada, una pitonessa gli aveva predetto che qualora l'avesse trovata sarebbe diventato re d'Italia. Fallito il tentativo di farsi consegnare sotto lauta ricompensa (i molti tesori portati da Troia) la lampada dalla sacerdotessa, la "Madre Terra", che la custodiva, Ulisse aveva fatto vela fino a raggiungere un luogo chiamato Walhallagara (nome che suona molto simile a Walhalla) dove aveva avuto una storia d'amore con la principessa Kalip (ovviamente Calipso) e con la quale era convissuto per molti anni fra «lo scandalo e la disapprovazione di tutti coloro che lo conoscevano». Da Calipso aveva ottenuto una sacra lampada tipo quella che stava cercando, ma la sorte non gli era stata amica, perché la sua nave aveva fatto naufragio e lui era stato salvato, nudo e senza più alcun avere, da un'altra imbarcazione. Questo frammento di storia greca inserito nel Libro di Oera Linda è quanto mai interessante. Date le avventure di Ulisse attorno al 1188 a.C., vale a dire una cinquantina di anni oltre la moderna datazione della caduta di Troia. Ma l’Oera Linda potrebbe essere nel giusto. Da quel che la leggenda tramanda, la ninfa Calipso era una burgtmaagd (parola che significa "vergine suprema", una sorta di capo di un gruppo di vergini vestali), un concetto che trova riscontro nelle affermazioni fondamentali dell'Oera Linda, secondo il quale dopo il diluvio i Frisoni avevano preso a navigare per tutto il mondo conosciuto, civilizzando l'area del Mediterraneo per spingersi fino in India. A questo punto si può ben capire come mai studiosi e accademici abbiano sempre disdegnato il libro: prenderlo alla lettera voleva dire riscrivere dal principio tutta la storia dell'umanità. Se, tanto per fare un esempio, accettiamo che l'isola di Calipso, Walhallagara, era l'isola di Walcheren nel Mare del Nord, allora Ulisse aveva compiuto i suoi viaggi al di fuori del Mediterraneo. Una situazione assai più complicata, che rende la versione di Omero decisamente più difficile da accettare. Dopo un secolo di oblio, il Libro di Oera Linda venne riscoperto da uno studioso inglese di nome Robert Scrutton. Nel suo affascinante libro intitolato The Other Atlantis egli racconta come nel 1967 lui e la moglie - una sensitiva dalle doti psicometriche eccezionali - mentre stavano camminando lungo Dartmoor avevano sperimentato la devastante visione di un diluvio: immense, gigantesche ondate verdastre che sommergevano implacabili le colline tutto attorno. Otto anni più tardi, nel corso delle sue ricerche si era imbattuto nella leggenda del diluvio all'interno di un antichissimo testo letterario noto come Le Triadi del Galles (dove si parla anche di re Artù). Nel libro si racconta che molto prima che il Kmry (Galles) venisse unito alla Britannia, c'era stato uno spaventoso diluvio che aveva spopolato l'intera isola. Una sola nave era riuscita a scampare e coloro che la guidavano erano andati a stanziarsi nella penisola della "Terra Solatia" (da Scrutton identificata nella Crimea, ancora oggi chiamata Krym, nel Mar Nero). Poi i sopravvissuti avevano deciso di visitare luoghi posti a maggiori altezze per colonizzarli, poiché la loro penisola era soggetta a inondazioni. Alcuni gruppi erano approdati in Italia, altri in Germania, Francia e Britannia. (Dopo tutto, questa narrazione non sembra in contrasto con quel poco che conosciamo a proposito di un altro misterioso popolo, i Celti le cui origini continuano a rimanere del tutto ignote). E così, alla fine, gli abitanti del Kmry avevano fatto ritorno in Britannia (probabilmente attorno al 600 a.C.) per fondare la religione druidica, all'inizio dedita ai sacrifici umani. Scrutton aveva proseguito nella ricerca portando alla luce altri ricordi relativi a un grande diluvio a più riprese menzionato non solo nella poetica dei bardi gallesi ma anche nell'Edda, il grande poema epico nordico (dove era citato col nome di Ragnarok). A questo punto, vale ricordare che Ignatius Donnely, il cui libro “Atlantis: The Antedeluvian World” nel 1882 era esploso come una bomba, l'anno dopo aveva scritto un altro saggio intitolato “Ragnarok: The Age of Fire and Ice” dove aveva cercato di ricostruire le leggende catastrofiche dell'emisfero settentrionale esponendo, fra l'altro, una dettagliata teoria in merito alla deriva continentale che si sarebbe poi rivelata assolutamente congrua e calzante con le successive ipotesi della scienza geologica terrestre. Quando Scrutton si era finalmente imbattuto nel Libro di Oera Linda si era ritrovato assorbito in una storia nuova dell'umanità, straordinaria eppure credibile. La prima domanda che si era posta suonava così: quale è stata la precisa natura della catastrofe che cancellò Atlantide dalla faccia del pianeta, spopolando al contempo le isole britanniche? In The Other Atlantis (1977) immagina che un gigantesco meteorite o un asteroide si sia schiantato nella regione del Polo Nord. Il violentissimo impatto aveva avuto la forza di spostare l'asse terrestre secondo una inclinazione maggiore, così che quelle terre che fino a quel momento avevano goduto di un clima buono erano di colpo diventate fredde, sviluppando condizioni artiche. I Greci conservavano nella loro mitologia la storia dei popoli iperborei che vivevano in modo felice e idilliaco nell'estremo Nord, quella stessa regione che Scrutton identifica con Atland. Il gigantesco proiettile astrale, dice Scrutton, aveva prodotto il cratere dell'oceano Artico, ove fosse possibile prosciugarlo apparirebbe ai nostri occhi in tutto simile a uno dei grandi crateri che osserviamo sulla faccia della Luna. Molti massi e macigni che gli studiosi ritengono essere stati nei millenni trasportati dall'azione dei ghiacciai, per Scrutton non sarebbero altro che i ciclopici frammenti delle rocce disintegratesi al momento dell'impatto fra la Terra e il grande corpo celeste. Ma questa parte della sua teoria è facilmente contestabile. Nella sezione iniziale dell'Oera Linda, infatti, si dice che per tutta l'estate che aveva preceduto il diluvio «il Sole era stato velato dalle nuvole, come se non avesse più voluto farsi vedere dalla Terra». C'era stata una calma perpetua e «una nebbia spessa come sudore si era distesa sulle case e sui campi». Poi, all'improvviso, «nel bel mezzo della quiete più profonda, la terra aveva incominciato a tremare come se stesse per esplodere e i monti si erano aperti per vomitare fuoco e fiamme». Non ci sono dubbi che si tratta della descrizione di una eruzione vulcanica, quella che si crede abbia distrutto Atlantide, che non sarebbe stata sommersa dall'onda di marea causata dall'impatto con un meteorite. Con questo dobbiamo, per forza, abbandonare l'ipotesi della caduta del corpo celeste? Non del tutto. Certamente un grande meteorite precipitato al Polo Nord avrebbe sollevato ondate a dir poco spaventose, ma se la calotta polare era ricoperta di ghiaccio, le ondate non avrebbero forse avuto l'energia sufficiente per sommergere le isole britanniche e l'isola continente di Atland. Al contrario, la violenta attività vulcanica che ne sarebbe conseguita avrebbe potuto generare un vero e proprio maremoto, come quello che alcuni storici ritengono abbia distrutto e inghiottito l'isola di Santorini (e più tardi Krakatoa). Scrutton cita anche un brano tratto dal testo sacro ed epico finlandese il “Kalevala” dove si racconta del Sole scomparso dal cielo e del mondo congelato. La correlazione temporale colloca questi eventi nel periodo in cui i Magiari (gli attuali Ungheresi) e i popoli finnici erano ancora un unico ceppo umano, vale a dire circa tremila anni or sono. Secondo Scrutton, nelle cosiddette "mappe geografiche degli antichi re del mare" così ben studiate dal professor Charles Hapgood, esisterebbe la conferma della catastrofe di Atland. Ma, ancora una volta, sorge un'obiezione. Alcuni carotaggi di terreno eseguiti nel territorio antartico noto come Terra della Regina Maud, rivelano che l'ultimo periodo in cui le terre del Polo Sud non erano ricoperte di ghiacci risalirebbe al 4000 a.C. Ne conseguirebbe che le grandi civiltà che redassero le mappe di Hapgood avrebbero dovuto esistere e fiorire ben prima. Questo, ovviamente, non esclude la possibilità di una catastrofe un paio di millenni dopo: forse la civiltà di Atland era durata duemila anni, come quella degli Egizi; ma se Hapgood ha ragione e le civiltà di cui fantastica vissero seimila anni or sono per poi essere completamente dimenticate a seguito di straordinarie catastrofi, è evidente che metter d'accordo queste due teorie è alquanto complicato. Esiste però un modo per farlo senza compiere salti mortali o ipotizzare soluzioni ancora più assurde delle teorie stesse.

Hapgood sostiene che le antiche mappe sono la testimonianza di una civiltà marittima espansa in tutto il mondo conosciuto, esistente sin da molto prima dell'era di Alessandro il Grande. Proviamo, dunque, ad accettare l'esistenza di questa civiltà, che possiamo ipotizzare fiorente subito dopo l'ultima grande glaciazione, vale a dire il 10.000 a.C. Seimila anni dopo questa civiltà si è ampiamente sviluppata nell'Antartico e nell'isola continente di Atland. In altre parti del mondo, come per esempio il Medio Oriente, è meno fiorente, anche se esistono già città ed è già stata scoperta l'agricoltura. Per ragioni ignote - ancora oggi, in effetti, nessuno sa con precisione perché si siano verificate le glaciazioni - il freddo era tornato e le popolazioni antartiche erano state costrette a migrare altrove, trovando rifugio soprattutto in Egitto. La gente di Atland, invece, dimorando in una fascia più temperata, non era stata investita così pesantemente dal freddo e aveva potuto continuare a restare nell'isola continente. Poi nel 2192 a.C. era sopraggiunta la grande catastrofe che aveva spostato l'asse terrestre. Era stato allora che gli abitanti di Atland, come prima quelli del Polo Sud, erano migrati, spostandosi logicamente verso il sud, in quelle regioni che non erano state colpite dall'arrivo del ghiaccio e dalle distruzioni provocate dalla catastrofe come, per esempio, l'India e il bacino del Mediterraneo. Se questo scenario possiede una logica, allora sia la teoria di Hapgood che quella di Scrutton sono valide. Una cosa, per lo meno, sembra chiara: le mappe degli antichi re del mare dimostrano l'esistenza di antichissime civiltà marinare, nate molto tempo prima dell'era di Alessandro il Grande. Al pari delle mappe, anche il Libro di Oera Linda testimonia questi fatti. Qualora il manoscritto risultasse essere una falsificazione, la cosa non inficerebbe però l'autenticità delle mappe. A tutt'oggi, comunque, non esistono prove che il libro sia un falso. È per questo motivo che sarebbe quanto mai utile una nuova, moderna edizione del testo, non solo per consentire agli studiosi di valutarlo appieno, ma anche per permetterne la lettura ai lettori comuni, certamente affascinati dai tanti racconti di battaglie e uccisioni. Certo che se per caso qualcuno dimostrasse che il Libro di Oera Linda è autentico, ossia racconta fatti realmente accaduti, allora la storia dell'umanità dovrebbe essere completamente rivisitata.

domenica 7 dicembre 2014

Fisico U.S.A.: “Gli alieni hanno distrutto la civiltà di Marte”



L’affermazione sembra quella di un folle, un mitomane, oppure uno che magari abbia bevuto un bicchierino di vino in più, ma a giudicare dal suocurriculum o del suo studio in merito presentato per il Bulletin Of the American Physical Society sembrerebbe essere una cosa seria.

John Brandenburg, fisico del plasma presso l’Orbital Technologies di Madison (Wisconsin), la civiltà su Marte è stata spazzata via da esplosioni nucleari prodotte da una civiltà aliena ostile.

Il fisico, che ha scritto un suo libro sulla questione intitolato Death on Mars: The Discovery of a Planetary Nuclear Massacre e che uscirà sul mercato statunitense nel mese di febbraio del 2015, afferma che antichi marziani chiamati Cydoniani e Utopiani vennero massacrati in un attacco – e le evidenze di questo genocidio, afferma, sono presenti ancora oggi.
Già nel 2011 lo scienziato fu il primo a postulare che il colore rosso di Marte fosse dovuto ad una esplosione termonucleare, ma di origine naturale. Dopo 3 anni ipotizza ancora che parte di Marte sia stato interessato da una esplosione di questo genere, ma prodotto da una razza aliena intelligente.

John Brandenburg dichiara che gli isotopi nucleari presenti in atmosfera simili a test di bombe all’idrogeno “possono presentare un esempio di una civiltà spazzata via da un attacco nucleare proveniente dallo Spazio“. Un ‘alta concentrazione‘ di Xenon-129 nell’atmosfera marziana, compresi uranio e torio in superficie, è stata vista dal Mars Odyssey della NASA. Nonostante la stragrande maggioranza degli scienziati abbia gà sottolineato che la comparsa di questi elementi non sia sorprendente, in quanto sono elementi naturali presenti ovunque, il dottor Brandenburg è fermamente convinto che siano i resti di due esplosioni nucleari presenti sulla superficie.
Una sua relazione, dal titolo ‘Evidence of Massive Thermonuclear Explosions in Mars Past, The Cydonian Hypothesis, and Fermi’s Paradox‘, è stata presentata il giorno 22 novembre 2014 durante l’annuale meeting organizzato dalla American Physical Society in Illinois. E si può leggere anche su ‘Journal of Cosmology and Astroparticle Physics‘.

Il dottor Brandenburg afferma che una volta Marte aveva un clima simile a quello della Terra, con vita animale e vegetale, compresa vita intelligente che sarebbe stata molto avanzata come quella degli antichi Egizi sulla Terra. Ciò si basa sull’analisi di due regioni marziane, una delle quali è Cydonia, dove fu scoperta la famigerata, e poi screditata, ‘faccia su Marte‘.

Secondo Brandenburg, ciò è un artefatto dell’antica razza aliena. Qui, una delle presunte esplosioni nucleari ha spazzato via la civiltà di Cydonia Mensae e un’altra, più piccola, ha distrutto una civiltà in una regione denominata Galaxias Chaos.

Il fisico scrive nel sommario della sua ricerca presentata alla American Physical Society che “analisi di nuove immagini provenienti da Odyssey, MRO e Mars Express mostrano una forte evidenza di oggetti archeologici erosi in questi siti. Nel loro insieme, i dati richiedono che l’ipotesi di Marte come luogo di un antico massacro nucleare planetario, debba ora essere presa in considerazione”.

Brandenburg afferma, inoltre, che la sua teoria potrebbe spiegare il Paradosso di Fermi – ossia perché, se l’Universo sia abbondante di vita, non abbiamo ancora ascoltato nulla. E mette in guardia affermando che “abbiamo bisogno di avere paura di un attacco al nostro pianeta, e dobbiamo supportare una missione umana su Marte per sapere con cosa siamo di fronte“.

In modo provvidenziale, siamo stati avvertiti di questo possibile aspetto del Cosmo“.

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