venerdì 18 settembre 2015

LA PORTA SEGRETA DI MACHU PICCHU CHE GLI ARCHEOLOGI VOGLIONO APRIRE

Potrebbe essere una delle scoperte più notevoli realizzate nel famoso sito archeologico di Machu Pichu, ma la burocrazia sta mettendo i bastoni tra le ruote agli archeologi.

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Per più di quindici anni, Thierry Jamin, un archeologo e esploratore francese, ha vagato per la giungle del sud del Perù in ogni possibile direzione, alla ricerca di indizi sulla civiltà Inca nella foresta amazzoni e della leggendaria città di Paititi, una città perduta dell’epoca pre-inca, che si dice essere esistita ad est delle Ande, nascosta da qualche parte nella foresta pluviale.
Nel corso di diverse esplorazioni nella giungla di Madre de Dios, l’avventuriero francese ha studiato le misteriose piramidi di Paratoari, conosciute anche come Piramidi di Pantiacolla, 12 monticcioli di circa 150 metri di altezza, individuate per la prima volta dai satelliti della NASA negli anni Settanta.
La stessa spedizione è stata occasione anche per uno studio approfondito delle incisioni rupestri di Pusharo, segni incisi nella roccia considerati dagli esperti come i più importanti dell’Amazzonia.
Dopo la scoperta di una trentina di siti archeologici a nordi di Cuzco, rinvenuti tra il 2009 e il 2011, che comprendono numerose fortezze, sepolture cerimoniali e centri urbani composte da centinaia di edifici e strade, Thierry Jamin ha intrapreso l’esplorazione di Machu Picchu.
Alcuni mesi fa, nel corso dello studio del sito, Jamin e il suo team hanno fatto quella che pensano sia una scoperta archeologica più straordinaria dai tempi della scoperta della antica città Inca ad opera di Hiram Bingham nel 1911. La scoperta è avvenuta grazie ad una segnalazione di un ingegnere francese, David Crespy.
Nel 2010, mentre era in visita a Machu Pichu, Crespy notò la presenza di uno strano rifugio situato nel cuore della città, in fondo a uno degli edifici principali. L’ingegnere non ebbe dubbi: stata guardano una porta, una sorta di ingresso sigillato dagli Incas.
Nel mese di agosto 2011, lesse per caso un articolo sul quotidiano francese Le Figaro che parlava di Thierry Jamin e il suo lavoro in Sud America. Immediatamente decise di contattare l’esploratore francese.
Thierry ascoltò con attenzione il resoconto di Crespy, decidendo di voler verificare la storia andando direttamente sul posto. Accompagnato da un gruppo di archeologi dell’Ufficio Regionale della Cultura di Cusco, l’archeologo riusci a visitare il sito per diverse volte.
Le sue conclusioni preliminari furono inequivocabili: si trattava di un ingresso in una camera sconosciuta di Machu Pichu, che gli Incas avevano bloccato per una qualche ragione ignota.
Tra l’altro, Thierry si rese conto che il sito somigliava stranamente ai luoghi di sepoltura che lui e suoi compagni avevano individuato nelle valli di Lacco e Chunchusmayo.
La posizione della “porta” al centro di uno degli edifici principali della città, e che domina l’intera area urbana, ha portato Thierry a ipotizzare che possa trattarsi di una sepoltura di primaria importanza.
Le tradizioni inca e alcune cronache, come quella di Juan de Betanzos, sostengono che Pachacutec, l’imperatore considerato come il fondatore dell’Impero inca, sia sepolto proprio a Machu Pichu.
E’ possibile che il recinto funerario sia proprio il sepolcro dove riposa la mummia del nono sovrano del Tawantinsuyu (Impero Inca). Fino ad oggi, nessuna mummia della stirpe degli imperatori inca è mai stata trovata. Sarebbe una scoperta senza precedenti.
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Al fine di confermare l’esistenza della cavità nel seminterrato del palazzo, a dicembre del 2011, Thierry e il suo team hanno presentato una richiesta ufficiale al Ministero della Cultura di Lima per effettuare delle indagini geofisiche con l’aiuto di strumenti per la risonanza elettromagnetica. Nell’aprile del 2012 il ministero ha dato il via libera agli archeologi.
Le indagini effettuate tra il 9 e il 12 aprile, non solo hanno confermato la presenza di una stanza sotterranea, ma addirittura di diversi ambienti! Appena dietro il famoso ingresso, è stata rilevata quella che sembra essere una scala.
Le risonanze hanno mostrato l’esistenza di due percorsi che sembrano portare alle varie aree del sotterraneo, tra cui una principale di forma quadrata.
Inoltre, il georadar ha rilevato una grande quantità di depositi di metallo, presumibilmente oro e argento. [Vedi sito ufficiale].
Infine, l’uso di telecamere endoscopiche conferma l’ipotesi che i blocchi di pietra disposti all’ingresso dell’edificio hanno la sola funzione di nascondere e proteggere il passaggio e non a sostenere le strutture edilizie come si è sempre pensato. Ampi spazi vuoti lasciano ipotizzare l’esistenza di un misterioso corridoio.
Thierry Jamin e il suo team non avevano torto. Si tratta di una porta chiusa dagli Incas per nascondere qualcosa di molto importante. Questo è forse il principale tesoro archeologico di Machu Picchu. Tutto sembrava andare per il meglio e Thierry e il suo team si stavano preparando per il passo successivo: l’apertura dell’ingresso sigillato dagli Incas più di cinque secoli fa.
Il 22 maggio 2012, Thierry ha presentato una richiesta alle autorità peruviane per un nuovo progetto di ricerca archeologica (con scavo) per procedere con l’apertura delle camere. Ma con una risposta arrivata il 5 novembre del 2012, il Ministero della Cultura di Lima, questa volte ha dato picche!
Evidentemente, la posta in gioco è molto alta. Si parla di una delle scoperte più importanti per l’archeologia del Sud America e non si fa fatica ad immaginare le pressioni degli archeologi locali che temono di farsi soffiare la scoperta da un europeo. Inoltre, si parla di grosse quantità di oro e di argento, fatto che ha spinto i funzionari governativi ad una riflessione più prolungata.
Ma Thierry Jamin, da buon esploratore, non si è perso d’animo e il 5 dicembre 2012 ha presentato una nuova richiesta alle autorità peruviane, invitandole a riconsiderare la loro decisione. A questo punto, non possiamo fare altro che attendere.

giovedì 17 settembre 2015

GEORGIA: SCOPERTE SCRITTE ANTICHE CHE POTREBBERO CAMBIARE LA STORIA DEL MONDO

Una scoperta tanto importante da poter costringere gli studiosi a rivedere la storia antica del mondo. Si tratta di testi risalenti a 2700 anni fa, scritti in una lingua finora sconosciuta.

georgia-archeologia

Una scoperta unica è stata recentemente fatta in Georgia, tanto importante da poter cambiare la storia del mondo.
Gli archeologi della spedizione archeologica organizzata dalla Università Statale della Georgia hanno rinvenuto a Graklini Hill, nella regione orientale del Kaspi, testi di una lingua utilizzata in territorio georgiano 2700 anni fa.
Come riporta l’articolo diagenda.ge, secondo i ricercatori, la scrittura non ha simili in tutto il pianeta, caratteristica che ne fa un ritrovamento unico ed estremamente interessante per gli studiosi di tutto il mondo.
reperti-georgiaIl testo si trova inciso sul muro di un tempo del 7° secolo a.C. dedicato ad una divinità della fertilità.
«La scoperta molto probabilmente cambierà la storia della Georgia e attirerà l’interesse della comunità scientifica internazionale», ha commentato il ministro georgiano della cultura Mikheil Giorgadze.
L’idea è quella di erigere una sorta di museo all’aperto, in modo da permettere ai visitatori di poter osservare i reperti appena scoperti.
«Si tratta di una scoperta eccellente», spiega Vakhtang Licheli, direttore dell’Istituto di Archeologia dell’Università Statale della Georgia. «Questo ritrovamento colloca la Georgia tra le antiche civiltà d’elite che hanno sviluppato una propria forma di scrittura».
Gli scritti si trovano su due altari del tempio e sono molto ben conservati. Sul primo altare è possibile vedere le scritte solo nelle sue parti d’argilla, mentre il secondo ne è interamente coperto.
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 Anche il luogo della scoperta è di notevole importanza per l’archeologia. Grakliani Hill, infatti, rappresenta un sito sul quale si sono insediati in maniera continuativa gruppi umani a partire dall’età della Pietra fino al periodo antico.

Finora, sul sito sono stati scavati dieci strati, dove sono state trovate armi antiche, icone decorative e cure farmacologiche.
Inoltre, è stato ritrovato un dispositivo per la stampa del 4° secolo a.C., considerato come una delle scoperte più importanti della zona, avendone trovato uno analogo nel sud della Mesopotamia.

martedì 15 settembre 2015

Lo strano caso del dottor Viktor Grebennikov e della sua straordinaria macchina volante

Viktor Grebennikov
Vi sono storie di marchingegni che hanno il sapore del meraviglioso, ma di cui non esistono prove certe della loro esistenza e funzionalità ricercate con piglio scientifico. In alcuni casi quanto viene presentato al pubblico ha la parvenza di qualcosa di realmente realizzabile, o forse già realizzato, ma tant’è; del manufatto descritto e delle sue potenzialità, non si rilevano tracce e così rimane il sempre dubbio, difficile da fugare, di abili montature fini a se stesse per il beato divertimento di qualche cervello vagamente alterato.
Viktor Grebennikov 2Eppure nel caso in esame esiste una così vasta documentazione su quanto viene raccontato, che la ragione vacilla e sorge il dubbio di una possibile verità, su cui è necessario interrogarsi. Questi i fatti: Viktor Grebennikov, classe 1927, è un personaggio conosciuto fin dagli anni settanta del secolo scorso; ora recenti lavori sulle leggi gravitazionali, hanno riportato alla luce la sua figura, i suoi affascinanti studi ed il mistero in essi è racchiuso, difficile da svelare, essendo il protagonista di questa storia morto nel 2001.
Viktor Stepanovich Grebennikov, è stato un naturalista, un entomologo professionista, un artista, in poche parole un intellettuale con una vasta gamma di interessi e attività. E’ conosciuto come lo scopritore degli effetti determinati dalle strutture cavernose (CSE) che è riuscito ad interpretare e ad utilizzare con profitto, stando a quanto ha dichiarato, osservando la natura ed i suoi segreti più intimi.
Viktor Grebennikov 3Nel 1988 dichiarò di avere rilevato la presenza di effetti anti-gravitazionali determinati dalla struttura caratteristica del guscio di chitina di certi insetti, una scoperta avvenuta quasi per caso, in un modo alquanto singolare. Un giorno, in preda ad una grande stanchezza nel corso di alcune sue osservazioni di insetti che stava conducendo da solo nella steppa siberiana, si sdraiò a terra per riposare e cadde addormentato. Ma il suo sonno non era tranquillo. Avvertiva un ronzio da cui era assai disturbato. Quel rumore gli procurava una sensazione di allarme, impedendogli di dormire.
Si alzò e fece pochi passi per allontanarsi da quel luogo che lo inquietava. Subito il disturbo cessò. Avvicinatosi al punto in cui si trovava in precedenza, subito ricomparve quello strano malessere da cui era stato disturbato. Solo allora comprese di essersi sdraiato su di un grande alveare ed il fatto di trovarsi in quel punto esatto gli procurava la sensazione di ricevere una notevole energia. Non ebbe pace fino a quando, dopo studi accurati, realizzò che il tutto era causato dalla perfetta forma geometrica dell’alveare.
E’ un concetto poco convenzionale, ma risaputo, di cui però è necessario tenere conto, al fine della comprensione del modo in cui ragionò Grebennikov. Le forme emettono energia; troviamo traccia di questa idea nell’alfabeto di lingue antiche, come il sanscrito e l’ebraico ed ancora nei pentacoli. E’ il fondamento della radionica e delle scienze affini. In questa occasione è sufficiente pensare alla forma della piramide, che anche se ricostruita in modelli rispettosi delle proporzioni originali, emette una energia di cui si è avuta più volte la riprova ed oggi l’esistenza dell’energia emessa dalle forme piramidali è accettata da un gran numero di ricercatori.

Grebennikov studiò non solo la forma dell’alveare, ma si chiese come potessero insetti, anche di dimensioni notevoli, dotati di pesanti corazze, vincere la forza di gravità e volare veloci, nonostante le ali relativamente piccole.

Estese allora il suo studio alla struttura della corazza degli insetti e vide al microscopio che queste sono costruite in modo tale da realizzare una mirabile forma cava, una struttura Cavernosa (CSE) la definì, caratterizzata da un aspetto estremamente ordinato in cui, secondo lo studioso, si accumula una forza di grande potenza che determina una spinta antigravitazionale.
Forte di questa conclusione volle riprodurre la struttura, progettando alcuni prototipi che, solo in base alla loro forma, generavano una potente forza tale da riuscire a sollevarsi dal terreno, vincendo in maniera autonoma la forza di gravità. La sua preparazione, e le conclusioni a cui era giunto, gli permisero di costruire una piccola piattaforma con cui afferma di essere riuscito a sollevarsi da terra e a compiere alcuni voli alla incredibile velocità massima di 25 km / min. Dal 1991-1992 affermò di aver utilizzato questo dispositivo per il trasporto veloce.
Ma il più impressionante fenomeno concomitante a questi effetti da lui scoperti, è stato quello notare la possibilità di ottenere una invisibilità completa o parziale, o anche di avvertire una percezione distorta degli oggetti materiali, nel momento in cui si entra nella zona in cui è avvertibile l’effetto antigravitazionale.
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Questo è quanto si evince dalla lettura del materiale oggi a disposizione in Internet e le conclusioni che si possono trarre è che potrebbe anche non trattarsi solo di una semplice farneticazione di una mente fantasiosa, ma forse quanto descritto, poggia su basi che, almeno su di un piano teorico, potrebbero avere i loro riscontri. Innalzamenti spontanei di persone sono descritti anche in epoca moderna, come la levitazione degli Yogi che praticano la meditazione trascendentale secondo Maharishi. Talvolta si sono verificate levitazioni documentate dei medium nel corso di sedute spiritiche.
Il discorso potrebbe essere ampliato, ma già in base a queste semplici considerazioni sarebbe opportuno che, quanto descritto dal professor Viktor Grebennikov, non venisse etichettato banalmente come “fantascienza” o pura fantasia. Gli accademici hanno le proprie convinzioni, che poggiano su basi reali ben documentate e riproducibili a piacere, ma simili intuizione non devono essere accantonate o nascoste al pubblico senza essere approfondite e verificate prima che possano, nel caso si riuscisse a realizzarle, cadere preda di organismi capaci di sfruttarle a fini militari facendo si che, da una idea in grado di alleviare il peso della vita degli uomini, possa derivare un ulteriore fattore di destabilizzazione della società tale da accelerare la fine di questo già fin troppo disgraziato pianeta.

GIGANTOPITECHI E MEGANTROPI: SCIMMIE E UOMINI GIGANTI NEL NOSTRO PASSATO

Gli antichi miti della cultura umana raccontano di uomini giganti che un tempo hanno camminato sul nostro pianeta, esseri considerati di origine divina e in possesso di poteri sovrannaturali.

gigantopiteco

I primi a parlarne sono stati i Sumeri, secondo i quali gli Anunnaki discesero dal cielo per creare l’umanità e insegnarli la civiltà e la tecnologia.
Anche nelle tradizioni dell’antico Egitto si tramandavano storie di esseri giganti. A darne testimonianza è lo storico antica Giuseppe Flavio che nel 79 d.C. scriveva:
“In Egitto vi erano dei giganti. Molto più grandi e di forma diversa rispetto alle persone normali. Terribile a vedersi. Chi non ha visto con i miei occhi, non può credere che siano stati così immensi”.
La Bibbia, uno dei libri più sacri dell’umanità, narra di un tempo in cui i giganti e gli uomini abitavano gomito a gomito sulla Terra (“C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo -, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini”, Gn 6,4). Attratti dalla bellezza delle donne umane, i “figli di Dio” si unirono alle femmine terrestri dando vita a quelli che nelle fonti apocrife vengono definiti nephilim.
Sempre nella Bibbia, questi enigmatici esseri giganti, tra i quali il Golia sconfitto da Davide, vengono definiti “discendenti di Anak”, riprendendo la radice sumera del termine Anunnaki:
“La terra che abbiamo attraversato per esplorarla è una terra che divora i suoi abitanti; tutto il popolo che vi abbiamo visto è gente di alta statura. Vi abbiamo visto i giganti, discendenti di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ci sembrava di essere come locuste, e così dovevamo sembrare a loro”, Nm 13,32.
E come non ricordare i Ctoni della mitologia greca, creature divine accomunate dalla caratteristica altezza, e i Ciclopi, situati dai Greci in Sicilia e fonte di ispirazione per il personaggio di Polifemo descritto da Omero nella sua Odissea.
E’ possibile che questi antichi miti e racconti facciamo riferimento a esseri giganti realmente esistiti sul nostro pianeta? Come interpretare gli enigmatici rinvenimenti di ossa gigantesche da parte dei paleontologi, ritrovamenti che sembrano sfidare tutte le teorie elaborate sul percorso dell’evoluzione umana? E se tali giganti fossero realmente esistiti, con chi abbiamo a che fare, una perduta razza umana gigante, oppure esseri venuti da qualche altra parte del cosmo?

Il caso del Gigantopiteco

Nel corso degli ultimi due secoli, archeologi e paleontologi sono venuti in possesso di reperti sconcertanti che mettono in discussione le teorie finora elaborate per spiegare il processo che ha portato all’evoluzione dell’Homo Sapiens a partire dai primati arboricoli.
Teschi giganti, mandibole con denti smisurati e femori giganteschi sono stati rinvenuti in diverse zone del pianeta a testimonianza del fatto che c’è un grosso “buco” nelle teorie che spiegano l’evoluzione della specie Homo. Molto lentamente, la comunità scientifica si sta convincendo che in un passato neanche troppo remoto, ominidi giganteschi siano esistiti sul pianeta Terra.
Uno dei casi più documentati e accettati dalla scienza è quello delGigantopitecus, venuto alla conoscenza degli scienziati nel 1935, grazie alla scoperta accidentale di alcuni misteriosi molari da parte del paleontologo tedesco Ralph Von Koenigswald in una farmacia di Hong Kong. Il ricercatore subito si rese conto di trovarsi di fronte ai resti di un gigantesco primate, forse il più grande ominide che abbia abitato il pianeta.
Basandosi sulle dimensione del molare, 2,5 centimetri di lato, si pensa che la gigantesca creatura arrivasse a misurare fino a tre metri di altezza e un peso corporeo di ben 500 chilogrammi. Le ricerche di Von Koenigswald andarono avanti per quattro anni, ma con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale il paleontologo fu fatto prigioniero e costretto ad interrompere i suoi studi.
Una recente analisi del reperto di Hong Kong, eseguita dal cronogeologo Jack Rink dell’University of Ontario, ha permesso di stabilire che questo strabiliante ominide sia esistito per quasi un milione di anni, estinguendosi intorno ai 100 mila anni fa, durante il Pleistocene. I ricercatori ipotizzano che il Gigantopiteco abbia condiviso con l’Homo Erectus l’ambiente nel quale visse, da collocare nel sudest asiatico.
“Questo primate è coesistito con gli esseri umani in un momento in cui i primi homo sono stati sottoposti ad un grande cambiamento evolutivo”, spiega Rink nel resoconto offerto da Livescience.com.
Infatti, in alcune indagini successive, i ricercatori hanno rinvenuto altri resti fossili delle gigantesche creature, sopratutto mandibole nella provincia di Guangxhi, nel sud della Cina, la stessa regione dove alcuni pensano abbia avuto origine la specie umana moderna.
Con i pochi reperti a disposizione, gli scienziati sono stati in grado di ricostruire le effettive dimensione dell’ominide. “Le dimensioni dei reperti, come la corona del molare, ci ha permesso di capire le straordinarie dimensioni di questo essere”, conclude Rink.
Anche se la causa dell’estinzione rimane ignota, i ricercatori ipotizzano che il Gigantopiteco abbia subito le conseguenze di notevoli cambiamenti climatici e la concorrenza delle nuove specie di ominidi, più piccole, agili e facilmente adattabili alle nuove condizioni ambientali.

La questione dello Yeti

Mentre la maggioranza degli scienziati ritiene che il Gigantopiteco si sia definitivamente estinto 100 mila anni or sono, alcuni criptozoologi ritengono che la gigantesca scimmia sia ancora esistente e che sia all’origine dei numerosi racconti e avvistamenti delle enormi creature pelose viste vagare per i boschi.
Secondo costoro, creature leggendarie come lo Yeti e il Bigfoot non sarebbero altro che varianti del Gigantopiteco sopravvissute fino ad oggi. Sono ancora in molti a cercare la prova definitiva dell’esistenza dello Yeti e il suo perseguimento è corroborato dal continuo flusso di avvistamenti, foto occasionali e orme di piedi giganti.
La maggior parte degli indizi a favore, però, viene da testimoni oculari e aneddoti, purtroppo il tipo di testimonianza meno affidabile e virtualmente senza valore dal punto di vista scientifico. In mancanza di prove concrete, quali un esemplare vivo o morto, ossa, denti, sangue o peli, la questione dell’esistenza del Bigfoot rimane aperta.

Ipotesi Megantropo

Nel dibattito sul ritrovamento del Gigantopiteco si inserisce un gruppo di ricercatori convinto che gli straordinari ritrovamenti giganteschi non siano da attribuire ad uno scimmione mastodontico, ma ad una razza di uomini giganti che un tempo hanno abitato il nostro pianeta.
Secondo tale gruppo, i ritrovamenti andrebbero attribuiti al cosiddetto “Megantropo”, termine con il quale si identifica un insieme di reperti controversi formato da mascelle fuori misura e frammenti di crani enormi.
Franz Weidenreich, anatomo tedesco esperto in antropologia fisica, contemporaneo di Ralph Von Koenigswald, sulla base del numerosi reperti rinvenuti nella regione, ha teorizzato che oltre al Gigantopiteco, sia esistita una specie di Megantropo che discenda dal gigantesco primate. La maggior parte dei paleoantropologi ritiene che il Megantropo sia in qualche modo legato all’Homo Erectus, ma ancora non si è compreso quanto gli sia vicino.
Tuttavia, sebbene sembra ci sia un sostanziale consenso, l’opinione tra gli studiosi è alquanto variegata. Molti restano convinti che i Megantropi siano la prova dell’esistenza degli antichi giganti. Si parla di individui altri fino a 3 metri, con un peso variabile tra i 340 e i 450 chilogrammi, dimensioni molto maggiori di qualsiasi Homo Erectus finora rinvenuto, nell’ordine di 2 a 4 volte la massa del corpo.

lunedì 14 settembre 2015

UN LABIRINTO DI 2 MILA ANNI FA SCOPERTO IN INDIA MOSTRA LO STESSO SCHEMA DI UNO GRECO DEL 1200 A.C.

Una curiosa coincidenza interroga gli autori di una scoperta avvenuta in India qualche settimana fa: un labirinto risalente ad almeno duemila anni fa con lo stesso schema di uno inciso su una tavoletta di argilla trovata a Pylos, Grecia, risalente al 1200 a.C. Una incredibile coincidenza o la prova di un collegamento tra culture?

labirinto

I labirinti sono certamente tra le strutture più enigmatiche concepite dall’umanità.
Lo schema labirintico più antico si trova in Sardegna, nella Tomba del Labirinto (Luzzanas),  inciso su una roccia appartenente ad una sepoltura che secondo gli esperti risale alla 2500 a.C., epoca neolitica.
Il più noto dell’antichità è sicuramente il leggendariolabirinto di Cnosso, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal Re Minosse sull’isola di Creta per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall’unione della moglie del re, Pasifae, con un toro.
Il simbolismo e il significato dei labirinti nel mondo antico sono complessi e molteplici. Secondo lo studioso J.C. Cooper, in alcune culture asiatiche il labirinto era legato alle leggi del Karma e al ciclo del Samsara, ovvero il ciclo di nascita, morte e reincarnazione nel mondo umano. Uscire dal Samsara significava raggiungere l’illuminazione, interrompere in ciclo di rinascita, e raggiungere l’eternità.
Come spiegato da Ancient Origins, in altre culture il simbolismo è legato al superamento delle difficoltà della vita presente, una sorta di passaggio dal profano al sacro. «Il viaggio della vita attraverso le difficoltà e le illusioni del mondo porta all’illuminazione», scrive Cooper. «Entrare in un labirinto simboleggia la morte dell’individuo, mentre l’uscita equivale alla rinascita».
labirinto-cnosso
Recentemente, un gruppo di archeologi indiani ha scoperto un labirinto che risalirebbe al 2 mila a.C. La struttura si trova nel villaggio di Gedimedu e misura 17 metri quadrati. Come riporta Times of India, il labirinto è attualmente in fase di scavo da parte dei ricercatori del Verarajendran Archaeological and Historical Research Centre.
Gli abitanti del posto hanno eretto un tempio sopra il labirinto, ma gli archeologi sono intenzionati a chiedere il permesso di rimuoverlo per consentire ulteriori scavi e studi.
«Il labirinto mostra un percorso che parte dalla porta d’ingresso fino all’uscita. Si deve camminare attraverso la via giusta per raggiungere l’obiettivo», spiega S. Ravikumar, capo del team di ricerca. «Si ritiene che la persona capace di percorrere correttamente il percorso vedrà realizzare i suoi desideri».
A confondere le idee ai ricercatori c’è una curiosa coincidenza: il labirinto indiano mostra un percorso praticamente simile a quello trovato su una tavoletta d’argilla trovata a Pylos, Grecia, fatta risalire al 1200 a. C., uno degli schemi più antichi conosciuti.
È difficile stabilire se si tratta di una notevole coincidenza, oppure se in qualche modo la cultura greca e quella indiana siano entrate in contatto nell’antichità. Secondo alcune ipotesi, potrebbero entrambe essersi ispirate ad una cultura più antica, preesistente ad entrambe.

sabato 12 settembre 2015

L'AMMIRAGLIO RICHARD BYRD E IL "MITO" DELLA TERRA CAVA

Nel primo dopoguerra l’ammiraglio Richard Byrd della Marina degli Stati Uniti compì delle esplorazioni ai poli che riaccesero il dibattito sull’ipotesi della Terra cava e sull’esistenza del mitico regno di Agarthi e della sua capitale Shambhala. L’esistenza di un mondo sotterraneo abitato da una civiltà evoluta è presente in numerose antiche tradizioni. 



Nel primo dopoguerra l’ammiraglio Richard Byrd della Marina degli Stati Uniti compì delle esplorazioni ai poli che riaccesero il dibattito sull’ipotesi della Terra cava e sull’esistenza del mitico regno di Agarthi e della sua capitale Shambhala. L’esistenza di un mondo sotterraneo abitato da una civiltà evoluta è presente in numerose antiche tradizioni.

Nel 1947 l’ammiraglio della Marina militare americana Richard Byrd compì un volo esplorativo al Polo Nord che ancora oggi non manca di suscitare una serie di domande a cui la scienza ufficiale fatica a rispondere. Spintosi 1.700 miglia “oltre” il Polo Nord cominciò a notare una trasformazione radicale dell’ambiente sorvolato che lo lasciò stupefatto. L’ammiraglio Byrd raccontò di essersi addentrato nei cieli di un territorio verdeggiante, un ambiente totalmente diverso da quello artico che ci si sarebbe aspettato. A terra era possibile osservare una vegetazione lussureggiante e rigogliosa tipica di territori con temperature medie molto superiori a quelle che caratterizzano il rigido clima polare. Le osservazioni dell’ammiraglio non si limitarono alla sola flora: nel diario di bordo annotò di aver osservato un animale dalla stazza notevole, simile ai mammut dell’età preistorica, che si muoveva nella vegetazione sottostante.


L’emozione e lo stupore provati dall’ammiraglio Byrd furono tali da indurlo a compiere, dopo nove anni, un secondo volo. Questa volta l’ammiraglio decise di sorvolare il Circolo Polare Antartico. Nel 1.956, in maniera analoga a quanto fece al Polo Nord, si spinse di circa 2.300 miglia “oltre” il Polo Sud. A testimonianza della sua impresa esiste la registrazione della comunicazione radiofonica che l’esploratore ebbe con la torre di controllo: 
“Oggi, 13 gennaio, membri della spedizione degli Stati
Uniti sono penetrati per 2.300 miglia in una terra “oltre” il polo. Il volo è stato effettuato dall’ammiraglio Gorge Dufek della Marina militare degli Stati Uniti“. Byrd puntò la rotta sul polo magnetico terrestre senza variare mai direzione lungo il viaggio. Esattamente come avvenne nove anni prima, l’ammiraglio constatò un repentino cambiamento delle condizioni climatiche e la conseguente mutazione della flora e della fauna locale.

Diversi anni dopo la sua scomparsa, il diario di volo dell’ammiraglio Byrd venne reso pubblico permettendo a numerosi ricercatori di trovare risposte alle loro domande. Nel diario di bordo, Byrd scrisse che il suo aereo fu affiancato da mezzi volanti sconosciuti che lo “costrinsero” ad un atterraggio forzato presso una base aerea non presente sulle mappe ufficiali. Sceso dal suo velivolo l’ammiraglio venne accolto con rispetto e premura da un personaggio autorevole che gli rivelò i motivi di quella “convocazione”.

L’uomo, descritto con tratti delicati e capelli biondi, rivelò a Byrd l’esistenza di una progredita civiltà negli ignoti territori del mondo sotterraneo oltre all’esistenza di due aperture nei poli che permettevano l’entrata a tale regno. Il misterioso interlocutore profetizzò a Byrd l’approssimarsi di nubi oscure sul futuro dell’umanità e chiese all’ammiraglio di farsi portavoce di tali rivelazioni. Disse di essere molto preoccupato dei destini dell’umanità, soprattutto in seguito alla scoperta e all’utilizzo delle armi nucleari durante la II Guerra Mondiale. Nonostante il compito di diffondere tali avvertimenti, l’ammiraglio Byrd non poté assolvere la missione assegnatagli in quanto fu obbligato al silenzio da parte dei suoi superiori.

ALCUNE FOTO DELLE APERTURE AL POLO NORD FOTOGRAFATE NEGLI ANNI '60 DEL SECOLO SCORSO DAL SATELLITE NASA "ESSA".



I racconti dell’ammiraglio Byrd sono una pietra miliare per chiunque si interessi al tema della “Terra Cava”. Molti ricercatori moderni pensano che l’esploratore americano abbia verificato la realtà di un mito che appartiene a svariate tradizioni culturali e spirituali: l’esistenza di un luogo paradisiaco situato all’interno del nostro pianeta. Un regno governato da un leggendario sovrano mediatore tra Dio e gli uomini. A tal proposito, in letteratura non mancano diversi richiami (seppure in chiave fantastica ed allegorica) a tale tradizione. Basti pensare al noto romanzo Viaggio al centro della terra di Jules Verne, al mondo sotterraneo nel quale è ambientato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll oltre al viaggio nel sottosuolo per eccellenza intrapreso da Dante Alighieri nella sua “Commedia“.

Tale mito è presente nei testi sacri delle più antiche culture orientali e medio-orientali dove non sono rari i racconti di contatti tra gli uomini e gli abitanti del regno presente nelle viscere della Terra. La tradizione buddhista tibetana descrive il regno di Agarthi e la sua mitica capitale Shambhala. Secondo tale credenza a capo del regno sotterraneo vi è il Re del Mondo, che risiede nel Tempio della Scienza Sacra e al cui comando vi sono gerarchie di esseri celesti provenienti dalle stelle. Essi governano ed influenzano l’andamento delle vicende umane che avvengono in superficie presiedendo all’evoluzione della nostra specie.

SECONDO LE DIVERSE LEGGENDE IL CENTRO DELLA TERRA E' ILLUMINATO DA UN SOLE O CRISTALLO

Negli antichissimi testi Uphanishad, appartenenti alla tradizione indiana, si narra del regno di Agarthi e del suo divino sovrano, chiamato Sanat Kumara, anch’esso al comando di una legione di esseri divini discesi in un’isola del mare di Gobi (oggi deserto di Gobi) a bordo di un’astronave fiammeggiante proveniente dalla stella bianca di Sirio. L’ultima apparizione in superficie del sovrano del regno di Agharti risalirebbe al 1.923 in India, quando si manifestò agli occhi degli increduli spettatori assiso su di un meraviglioso trono trainato da elefanti bianchi. Nel suo tragitto benediceva la folla recando in mano il simbolo di una mela d’oro sormontata da un anello sul quale era inciso un simbolo ben conosciuto da tutti: la svastica.

Il Re del Mondo appare anche nella tradizione biblica giudaico-cristiana con il nome di Melki Tsedeq, re di Salem. La sua identità è rivelata nella Genesi (XIV, 19-20) per poi essere ripresa in un commento di San Paolo (Epistola agli Ebrei, VII, 1-3): “Questo Melki Tsedeq, re di Salem, sacerdote dell’Altissimo, che andò incontro ad Abramo donò la decima di tutto il bottino; che è innanzitutto, secondo il significato del suo nome, re di giustizia poi re di Salem, cioè re di pace; che è senza padre, senza madre, senza genealogia, la cui vita non ha né principio né fine, ma che in tal modo è reso simile al Figlio di Dio, questo Melki Tsedeq rimane sacerdote in perpetuo“.

Il leggendario regno sotterraneo di Agarthi si configurerebbe dunque come la dimora terrena di popoli che visitarono i nostri cieli, con i loro prodigiosi mezzi volanti, nella notte dei tempi. Si tratterebbe della centrale di coordinamento della loro presenza sulla Terra, il centro logistico della loro missione sul nostro pianeta. Sebbene possa apparire una semplice credenza mitologica, confutata dalle attuali conoscenze scientifiche, l’idea che la Terra possa ospitare al suo interno una civiltà a noi sconosciuta rimane un’idea affascinante che non ha mancato di interessare, nel corso della storia, anche personalità di spicco che vi hanno dedicato anni di ricerca e di studi.

venerdì 11 settembre 2015

TURCHIA CENTRALE: UNA CIVILTÀ PRE-UMANA HA LASCIATO DEI SOLCHI NELLE ROCCE DI 14 MILIONI DI ANNI FA?

Secondo il geologo russo Alexander Koltypin, direttore del Centro di Ricerca di Scienze Naturali scientifica presso Università Internazionale Indipendente ecologico-politico di Mosca, i solchi visibili nelle rocce di una regione della Turchia centrale sono il segno lasciato da un'antica civiltà di 14 milioni di anni fa. E forse non erano umani!

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Il dottor Alexander Koltypin si è laureato alla Russian State Geological Prospezione University e ha completato ulteriori studi presso l’Istituto di Oceanologia presso l’Accademia Russa delle Scienze.
Attualmente dirige il Centro di Ricerca di Scienze Naturali scientifica presso Università Internazionale Indipendente ecologico-politico di Mosca e al suo attivo conta diverse pubblicazioni di divulgazione scientifica.
Insieme a tre colleghi, il dottor Koltypin è appena tornato da un viaggio in Anatolia, dove ha visitato un enigmatico sito a circa 70 chilometri da Ankara, in quello che una volta fu il territorio dei Frigi, dove è possibile osservare dei lunghi solchi, simili a binari, tracciati nella roccia vulcanica.
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Il geologo russo sostiene che i misteriosi solchi risalgano a circa 14 milioni di anni fa e che non siano di origine naturale, ma prodotti da una razza intelligente che abitava il nostro pianeta.
«Possiamo supporre che le tracce siano il risultato dello spostamento di veicoli sul terreno morbido», spiega al Daily Mail. «A causa del loro peso, i solchi risultato alquanto profondi».
Successivamente, i solchi, e tutta la superficie loro intorno, si è solidificata. «Casi come questi sono ben noti ai geologi, come le impronte di dinosauro che si sono conservate in modo simile nel corso di milioni di anni».
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Koltypin ritiene che il terreno originale era composta da depositi di cenere vulcanica, solidificatosi poi in roccia tufacea. «Tutto questo è avvenuto alcuni milioni di anni fa… e non stiamo parlando di esseri umani», azzarda il ricercatore. «Abbiamo a che fare con un qualche tipo di veicolo».
Secondo le osservazione dello scienziato, le coppie di solchi si incrociano a vicenda e alcune di esse sono più profonde rispetto alle altre. Inoltre, la distanza tra le tracce è sempre lo stesso.
Alexander KoltypinNelle tracce più profonde, alcune fino ad un metro, abbiamo osservato dei segni orizzontali che percorrono il solco, come se fossero stati lasciati dall’estremità delle assi che sostenevano le ruote. «Abbiamo trovato molti solchi con questi segni», spiega Koltypin.
Sulla datazione delle rocce non ci sono margini per dubbi, dato che la metodologia per specificare l’età delle rocce vulcaniche è ormai ben consolidata. Resta il dubbio su cosa abbia potuto produrre i binari nella roccia.
«Come geologo, posso certamente dirvi che veicoli antidiluviani sconosciuti hanno percorso il territorio della Turchia centrale tra i 12 e i 14 milioni di anni fa», conferma Koltypin.
Il ricercatore si dice anche convito che gli archeologi non vorranno discutere di questa ipotesi perché rovinerebbe tutte le loro teorie classiche sulla storia del pianeta Terra.
«Credo che stiamo osservando i segni di una civiltà esistita prima del nascita del nostro mondo», continua, «e, forse, le creature di questa civiltà non erano come gli esseri umani moderni».

mercoledì 9 settembre 2015

TUTTI GLI ALTRI TRIANGOLI (OLTRE A QUELLO DELLE BERMUDA)!

I ricercatori hanno avanzato le ipotesi più varie per giustificare fenomeni che sfidano le leggi della fisica e la misteriose sparizioni di intere navi e aeromobili: dalla presenza di un tunnel spazio temporale, alle distorsioni magnetiche di un qualche fenomeno non ancora conosciuto.ù

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Da tempi immemorabili, l’oceano è parso all’uomo un ambiente ostile e pericoloso. Così come sulla terra ferma, ci sono alcune aree oceaniche che hanno fatto registrare numerose anomalie e misteri.
La zona più famosa, per gli enigmatici fenomeni che la caratterizzano, è sicuramente quella del Triangolo delle Bermuda, un’area dell’Oceano Atlantico i cui vertici sono rappresentati dall’Arcipelago delle Bermuda, dall’Isola di Porto Rico e dalla punta della penisola della Florida.
Numerosi fenomeni enigmatici sono stati descritti dai marinai e dagli aviatori di ogni tempo. Persino Cristoforo Colombo annota nei suoi diari di misteriose sfere di luce viste fluttuare sulle acque di questo misterioso fazzoletto di Oceano Atlantico [Anche Cristoforo Colombo conosceva i fenomeni del Triangolo delle Bermuda].
I ricercatori hanno avanzato le ipotesi più varie per giustificare fenomeni che sfidano le leggi della fisica e la misteriose sparizioni di intere navi e aeromobili: dalla presenza di un tunnel spazio temporale, alle distorsioni magnetiche di un qualche fenomeno non ancora conosciuto.
C’è addirittura chi pensa che sul fondo del Triangolo delle Bermuda esista un gigantesca piramide di cristallo, un antichissimo generatore di energia che causerebbe le anomalie e che sarebbe una vestigia della mitica civiltà di Atlantide, sprofondata 13 mila anni fa sul fondo dell’Oceano Atlantico. [Scoperta una gigantesca piramide sul fondo del Triangolo delle Bermuda].
Ma quello delle Bermuda non è l’unico luogo del pianeta dove si registrano questi misteriosi ed enigmatici fenomeni.

Il Mare del diavolo

Anche conosciuto come “Triangolo del Drago”, è una zona dell’Oceano Pacifico che si trova a al largo della costa sud-est del Giappone. Anche in questo caso è possibile individuare un triangolo ideale i cui vertici sono rappresentati dalle isole di Honshu, Luzon e Guam.
Anche questa zona è diventata tristemente famosa per le anomalie che sono state tramandate dai marinai da tempo immemore. Le leggende raccontano che in questa zona dell’Oceano Pacifico sia abitato da diavoli e mostri marini che non aspettano altro di attaccare gli incauti navigatori.
Ma oltre alle leggende, ci sono fatti registrati dalla storia che fanno riflettere. Le numerose sparizioni di navi e aeroplani avvenute nella zona ha costretto il governo nipponico a dichiarare l’area come “zona pericolosa”.
Secondo quanto riporta lo scrittore Charles Berlitz nei suoi resoconti, tra il 1952 e il 1954, il Giappone ha perso in questa zona ben cinque navi militari, tutte sparite nel nulla senza lasciare traccia.
Nel 1955, il governo giapponese commissionò una spedizione in quel tratto di mare per fare luce sulle misteriose sparizioni e valutare la reale pericolosità delle coordinate geografiche. Ma nessuno si sarebbe mai aspettato che anche la nave oceanografica Kaiyo Maru 5 sparisse nel nulla con tutto l’equipaggio a bordo, composto da marinai e scienziati.
A seguito di tali eventi enigmatici, numerosi ricercatori indipendenti iniziarono uno studio approfondito sul Triangolo del Drago. Tra questi, spicca il lavoro di Ivan Sanderson, il quale inserisce questa area del pacifico nelle “Twelve Devil’s Graveyards Around the World” (I dodici cimiteri del diavolo sparsi per il mondo), articolo che Sanderson presento alla comunità scientifica nel 1972.
Secondo l’ipotesi del ricercatori, nel mondo esisterebbero 12 zone simili al Triangolo delle Bermuda, posizionate a intervalli di 72° intorno al mondo, e più esattamente situate al 36° latitudine nord e sud; cinque nell’emisfero settentrionale, cinque nell’emisfero meridionale, oltre ai poli nord e sud.
Il motivo per il quale il Triangolo delle Bermuda è più conosciuto, dipende dal fatto che si tratta di un’area con un traffico aereo e marittimo più intenso: mentre anche le altre zone, sebbene situate in luoghi meno battuti, danno prove evidenti di anomalie. Egli definì queste aree come “Vortici del male”.
Sanderson ipotizzò che le correnti caldi e fredde che attraversano questi vortici potessero creare dei disturbi elettromagnetici, i quali avrebbero influenzato gli strumenti e le navi, causando così la sparizione delle stesse navi.

Il Mar dei Sargassi

La porzione di Oceano Atlantico compresa fra gli arcipelaghi delle Grandi Antille (a ovest) e le Azzorre (a est). È noto per le alghe che vi proliferano (appartenenti al genere Sargassum). Tali alghe, di colore bruno, affiorano in superficie in grandi quantità, conferendo ad alcune zone del Mar dei Sargassi l’aspetto di una prateria.
Una delle caratteristiche più peculiare del Mar dei Sargassi è il fatto che è sempre calmo e, nonostante si trovi ad una latitudine abbastanza alta, l’acqua risulta sempre insolitamente calda.
Il Mar dei Sargassi fu scoperto il 16 settembre 1492 da Cristoforo Colombo nel primo viaggio verso le Americhe, quando ormai si trovava a 1600 chilometri dalle Canarie. Vedendo le caravelle navigare “in mezzo a chiazze marine verdissime”, pensò di trovarsi ormai in vicinanza della terra e a lungo scandagliò il fondo senza trovarlo, pur usando una corda lunga 200 braccia.
Pochi giorni dopo “le erbe erano talmente fitte che il mare pareva coagulato”, ma a Ovest del 72° meridiano le erbe cessarono (curiosamente, lo stesso dato fornito da Sanderson).
Anche Jules Verne ha scritto di questo mare nel suo libro “I grandi navigatori del Settecento“, descrivendolo più grande del continente australiano e come un vero e proprio “lago in mare aperto”. Secondo Verne, la mitica Atlantide si troverebbe proprio sul fondale del Mar dei Sargassi.
L’area in questione ha una misteriosa reputazione, ossia quella di “rapire” gli equipaggi dalle loro imbarcazioni, lasciando i vascelli vuoti a continuare la loro navigazione.
Uno degli episodi più noti è quello che riguarda la nave mercantile francese Rosalie, un bastimento di 222 tonnellate costruito nel 1838, partito da Amburgo e diretto all’Havana, Cuba.
La nave fu ritrovata il 6 novembre 1840 alla deriva al largo di Cuba, senza equipaggio e con le vele ancora spiegate. L’unico superstite fu un canarino nella sua gabbia. Lo scafo era perfettamente intatto e il suo carico completamente integrò, cosa che fece escludere un assalto da parte dei pirati. Anche le scialuppe di salvataggio erano al loro posto.
Non si capiva perciò come la gente avesse potuto abbandonare lo scafo. Né il motivo per cui si sarebbe gettata in mare, come per un raptus collettivo. Dell’equipaggio, scomparso misteriosamente nel nulla, non si seppe mai più niente.
Un altro episodio famoso riguarda la Mary Celeste, un brigantino canadese di 31 metri, varato nel 1861 in Nuova Scozia. Il 7 novembre 1872, sotto il comando del capitano Benjamin Briggs, la nave imbarcò un carico di alcool industriale per conto della Meissner Ackermann & Coin e salpò da Staten Island, New York, alla volta di Genova.
Oltre al capitano e all’equipaggio di altri sette marinai, la nave aveva altri due passeggeri: la moglie del capitano, Sarah E. Briggs, e la sua figlioletta di appena due anni, Sophia Matilda.
Il 4 dicembre 1872 il brigantino fu avvistato da un’altra nave, la Dei Gratia. La Mary Celeste si trovava tra le coste portoghesi e le isole Azzorre, ed era alla deriva a vele spiegate verso lo stretto di Gibilterra. Non vi erano segni della presenza dell’equipaggio a bordo. Un gruppo di marinai della Dei Gratia fu inviato a bordo.
La Mary Celeste era deserta: l’equipaggio era scomparso. La nave era in discrete condizioni, anche se era completamente grondante d’acqua. Solo una delle pompe era in funzione, e nella stiva vi era fino ad un metro d’acqua. Alcune delle sue vele erano strappate.
La bussola era rotta, il sestante ed il cronometro marino mancavano e la sua unica scialuppa era mancante e sembrava essere stata intenzionalmente messa in mare piuttosto che strappata via da una tempesta, il che lasciava pensare che la nave fosse stata deliberatamente abbandonata.
Il carico di 1701 barili di alcol era intatto, anche se, una volta a Genova, si scoprì che nove barili erano vuoti. A bordo vi erano ancora scorte di acqua e di cibo per sei mesi. La maggior parte delle carte di bordo mancavano.
Le ultime annotazioni rimaste riferivano che la nave era giunta in vista di Santa Maria delle Azzorre il 25 novembre. Il brigantino fu condotto in porto a Gibilterra dagli uomini della Dei Gratia e successivamente sequestrato dai funzionari inglesi.
Nessuno degli uomini scomparsi dalla Mary Celeste fu mai ritrovato, né si seppe mai cosa accadde loro. Nel 1873 furono segnalate due scialuppe di salvataggio nell’entroterra spagnolo, una avente una bandiera americana a bordo, l’altra contenente cinque corpi. Tuttavia questi corpi non sono mai stati identificati.

La Terra del Fuoco

Un altra trappola per imbarcazioni e marinai è rappresentata dalla Terra del Fuoco, un arcipelago al largo della punta meridionale del Sud America. Durante il suo primo viaggio intorno al mondo iniziato nel 1520, il famoso navigatore Ferdinando Magellano avvisto numerose luci in movimento nei pressi dell’arcipelago.
Alcuni pensarono che si trattasse di torce accese posizionate su zattere alla deriva. L’ipotesi ispirò il navigatore che chiamo l’arcipelago “Terra del Fuoco”. Le cronache raccontano di un terribile avvenimento accaduto molti secoli dopo, e che ancora oggi rimane avvolto nel mistero.
Nel mese di ottobre del 1913, i marinai a bordo di una nave britannica avvistarono un vascello sconosciuto alla deriva. Quando abbordarono la nave, i marinai scoprirono che il ponte della nave era completamente marcio e, con loro sommo orrore, scoprirono 20 scheletri che presumibilmente rappresentavano quello che rimaneva dell’equipaggio originario.
Gli scheletri erano stati ritrovati seduti nella maniera usuale, nella postura di chi è impegnato in una lunga, quanto noiosa, traversata oceanica. Tutte le merci e le attrezzature della nave erano rimaste intatte e nulla fuori posto. I documenti ritrovati a bordo rivelarono che la nave era partita da un porto della Nuova Zelanda 23 anni prima, in direzione di Londra, con un carico di lane e carne congelata.
Cosa sia successo alla nave e al suo equipaggio rimane ancora un mistero. Tuttavia, incontri con navi “fantasma” o con cimiteri galleggianti non sono così rare in mare aperto.

Il Triangolo del Michigan

Non solo il mare custodisce segreti e luoghi misteriosi. Il lago Michigan negli Stati Uniti, per esempio, è stato teatro di numerosi avvistamenti di oggetti misteriosi e di aerei fantasma.
Secondo quanto scrive Dwight Bower, uno storico marino, nel suo libro “Strange Adventures of the Great Lakes”, la leggenda del Triangolo del Michigan nacque nel 1937, quando il capitano George Donner scomparve misteriosamente dalla cabina del bastimento durante una consegna di routine di carbone.
Pare che il capitano avesse precisato di voler essere svegliato nel momento in cui la nave avesse raggiunto il porto. Ma quando i suoi uomini si recarono nella sua cabina non riuscirono a trovarlo, nonostante la sua porta fosse chiusa dall’interno.
Tredici anni dopo, il 23 giugno 1950, il volo 2051 della Northwes Airlines, un DC-4 in servizio tra New York e Seattle con 55 passeggeri a bordo, scomparve nel nulla nel cuore della notte, nel momento in cui si trovava a passare sul Triangolo del Michigan a 1100 metri di altezza.
In un primo momento si penso che l’aereo fosse precipitato nel lago, ma le ricerche dei sommozzatori diedero esito negativo. Ancora oggi il relitto non è stato ritrovato, nonostante la Shipwreck Research Associates organizzi annualmente una ricerca approfondita per cercare di spiegare l’incidente.

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