sabato 31 gennaio 2015

LE PIRAMIDI CINESI E LE LEGGENDE SUGLI DEI DISCESI DAL CIELO. TRACCE DI ANTICHI ASTRONAUTI E DI CIVILTÀ ANTIDILUVIANE?

Nonostante le resistenze di archeologi e burocrati, i dettagli circa le grandi piramidi in Cina, capaci di rivaleggiare con quelle Egiziane e Centroamericane per antichità, complessità e bellezza, continuano a venir fuori molto lentamente. Il grande passato della Cina, occultato per lungo tempo, potrebbe svelare nuove importanti verità sul passato dell'umanità?

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Tra negazioni, ostacoli e reticenze, la verità sull’esistenza delle Grandi Piramidi cinese si è finalmente fatta strada fino a raggiungere il grande pubblico.
Si sospettava dell’esistenza di tali strutture in Cina fin dall’inizio del 20° secolo, ma le tormentate vicissitudini politiche e sociali, cominciate con la rivolta di Wuchang (1911), hanno rappresentato un ostacolo molte volte insormontabile.
«Il passato antico della Cina è negato a noi e alla sua popolazione, ma il suo grande passato viene lentamente svelato, come è successo per l’antico Egitto», scriveva lo storico Henri Cordier nel 1920. «Anche se riconosciuta come una grande civiltà, i suoi antichi tesori sono appena conosciuti. Voci parlano di piramidi in aree desolate del paese».

La prima testimonianza: Fred Meyer Schroeder

La conoscenza delle piramidi cinesi è avvenuta in diverse fasi e in maniera molto graduale. La prima testimonianza risale al 1912. L’agente di viaggio americano Fred Meyer Schroeder, nel corso di uno spostamento nell’entroterra, riportò l’avvistamento di una serie di piramidi nella provincia dello Shaanxi.
«È stato più inquietante di quanto le avessimo trovate nel deserto», scrive nel suo diario. «Queste piramidi sono in qualche modo esposte agli occhi del mondo, ma ancora completamente sconosciute agli occidentali». La guida di Schroeder, un monaco buddista, spiegò che le piramidi si trovavano lì almeno da 5 mila anni.
Schroeder stimò che la piramide principale raggiungeva almeno i 300 metri di altezza, con i lati della base lunghi 500 metri, dimensioni che darebbero una struttura dal volume dieci volte superiore a quello della Grande Piramide in Egitto.

La seconda testimonianza: James Gaussman

La seconda testimonianza fu del pilota dell’US Army Air Force James Gaussman, il quale riportò l’avvistamento di una grande piramide bianca durante un volo tra l’India e la Cina nel 1945, in piena Seconda Guerra Mondiale. Così fece rapporto il militare:
«Volavo attorno ad una montagna, seguita da una valle. Direttamente sotto di noi abbiamo individuato una gigantesca piramide bianca. Sembrava di essere in una fiaba: la piramide era avvolta in un bianco luccicante. Potrebbe essere stata di metallo o di qualche altro tipo di pietra. La cosa curiosa è che alla sua sommità c’era un grande pezzo di materiale prezioso, simile ad una gemma. Sono rimasto profondamente colpito dalle dimensioni colossali della struttura».

La fotografia di Maurice Sheahan

La terza testimonianza, documentata da una fotografia, si deve al colonnello Maurice Sheahan, direttore per l’Estremo Oriente della Trans World Airlines. Nel 1947, durante un volo su una valle nei pressi delle montagne Qin Ling, Sheahan individuò una piramide gigante che riusci prontamente a fotografare.
La scoperta venne riportata sull’edizione del 28 marzo 1947 del New York Times. Nell’articolo si stimava che la piramide raggiungesse i 300 metri di altezza con una base di 500 metri per lato, dimensioni che farebbero impallidire la piramide di Giza.
Due giorni dopo, nell’edizione domenicale, il New York Times pubblicava anche la foto scattata da Sheahan. Nel frattempo, in una lettera inviata all’Associated Press, gli archeologi cinesi negavano che tale piramide esistesse.
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La struttura è stata in seguito identificata come il ben noto tumulo Maoling (vedi immagine su Google Maps), ovvero la tomba dell’imperatore Wu di Han (156-87 a.C.), posizionata nella provincia di Shaanxi, a circa 40 chilometri a ovest della capitale Xi’an.
Una mappa dettagliata dell’US Air Force della zona intorno alla città di Xian, realizzata con l’utilizzo di fotografie satellitari, mostra almeno 16 piramidi.
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Interessante notare che le tre piramidi maggiori ricalcano la posizione delle piramidi di Giza e di Teotihuacàn, configurazione che secondo molti ricercatori richiama la posizione delle tre stelle della Cintura di Orione.
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Ancora molto da scoprire

«La Cina conserva ancora molti misteri, di cui la stessa popolazione locale non è a conoscenza», scriveva il ricercatore tedesco Hartwig Hausdorf nel suo libro del 1994 “Die weisse Pyramide” (La Piramide Bianca). «Ho parlato con gli archeologi cinesi, i quali in un primo momento hanno negato qualsiasi piramide, ma alla fine hanno riconosciuto la loro esistenza».
Tuttavia, l’impressione è che la Cina non rinuncerà a tutti i suoi misteri così facilmente. Probabilmente, molte piramidi sono ancora da scoprire, altre non ancora fatte conoscere alla comunità scientifica e all’opinione pubblica.
Buona parte delle strutture piramidali note rappresentano antichi tumuli funerari realizzati per ospitare i resti di molti dei primi imperatori della Cina. Il più famoso è il Mausoleo del Primo Imperatore cinese Qin Shi Huang, vicino a Xi’an, nella provincia Shaanxi della Cina.
È qui che fu trovato il famoso Esercito di Terracotta, un gruppo stimato tra le 6 mila e le 8 mila statue di guerrieri, vestiti con corazze in pietra e dotati di armi, poste di guardia alla tomba dell’imperatore. Di queste statue sono state riportate alla luce circa 500 guerrieri, 18 carri in legno e 100 cavalli in terracotta.
Le strutture piramidali cinesi presentano cime piatte, quindi molto più simili nella forma alle piramidi messicane di Teotihuacàn, rispetto a quelle di Giza in Egitto.
Resta la domanda: come mai la piramide rimane la forma architettonica più diffusa dell’antichità? Sulla base del fatto che molte civiltà del passato abbiamo preferito la forma piramidale come struttura fondamentale, alcuni ricercatori pensano che in un passato remoto sia esistita una civiltà globale che ha abitato il nostro pianeta, diffondendo la sua cultura in tutti i continenti della Terra.
Dopo essere stata spazzata via da un immenso cataclisma globale, questa antica civiltà avrebbe lasciato le tracce della sua esistenza nei monumenti piramidali sparsi su tutto il pianeta. I pochi superstiti avrebbero poi ricostruito il mondo post-diluviano. Si tratta della Teoria degli Antichi Umani.
Altri, tuttavia, pensano che nel passato dell’umanità ci sia qualcosa di molto più intricato: viaggiatori extraterrestri avrebbero preso contatto con i nostri antenati, alterandone la cultura e l’evoluzione. Data la loro abilità tecnologica, i nostri antenati avrebbero considerato questi viaggiatori alieni come divinità.
La mitologia cinese tramanda di esseri celesti discesi sulla terra in draghi volanti: costoro furono i primi sovrani cinesi che diedero inizio alla civiltà cinese e che sono conosciuti come i Tre Augusti: Fu Xi, Nüwa, Shen Nung.
Fu Xi, secondo la tradizione, visse tra il 2952 e il 2836 a.C. Aveva un ruolo di mediatore tra gli uomini e gli esseri divini. Le leggende vogliono che abbia insegnato la pesca e l’allevamento agli uomini. Inoltre, a lui vengono attribuite l’invenzione del sistema divinatorio Yi Jing, della metallurgia, della scrittura, del calendario e della la musica.
Nüwa era la sorella di Fu Xi e ne divenne anche la sposa. Il suo aspetto è a metà strada tra l’essere umano, di cui appare la testa e l’animale, solitamente il corpo dalle sembianze di serpente o di pesce. È considerata una divinità della creazione: è lei a creare gli uomini, plasmandoli dall’argilla. A lei si deve anche l’introduzione dell’istituzione matrimoniale.
Fu Xi e Nüwa venivano rappresentati sempre allacciati per la coda. Fu Xi tiene in mano una squadra, Nüwa invece un compasso. I due strumenti (ad oggi, ancora adoperati nella simbologia massonica) indicano che i due sovrani inventarono norme, regole, standard.
Inoltre, nelle illustrazioni Fu Xi e Nüwa sono accompagnati da due soli. In alcune tombe degli Ittiti datate intorno ai 4 mila anni fa, si trovano raffigurazioni simili di due gemelli, maschio e femmina, accompagnati da due soli. Questi gemelli sono quelli che nei testi ittiti si identificano come dio del Sole e del Cielo e dea del Sole e della Terra.
Dunque, come spesso avviene quando si tratta di questi argomenti, le suggestioni sono molte, le coincidenze incredibili e le domande moltiplicate. L’antica Cina ci consegna un ulteriore tassello del misterioso mosaico del passato del nostro pianeta. Le piramidi cinesi potrebbe aiutarci a comprendere cosa è realmente accaduto?

domenica 25 gennaio 2015

ESISTONO DAVVERO LE SIRENE? L’AFFASCINANTE TEORIA DEGLI ‘UMANOIDI ACQUATICI’

Alcuni si sono chiesti se dietro le leggende sulle sirene possa nascondersi un nocciolo di verità. Potrebbero esistere realmente degli umanoidi acquatici intelligenti, parenti lontani dell’uomo, che hanno sviluppato il loro percorso evolutivo adattandosi a vivere nelle profondità dell’oceano e che hanno sviluppato una società complessa nella quale vivono nascosti per paura dei loro parenti umani?

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Circa un anno fa, il NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), l’agenzia federale oceanografica degli Stati Uniti, ha sentito la necessità di dover dichiarare ufficialmente che le sirene non esistono!
“Le sirene del mare, metà umane e metà pesce, sono leggendarie creature marine di cui si racconta sin da tempo immemore”, ha scritto il NOAA nel suo sito web.
Ma la sortita del NOAA non è casuale, infatti fu rilasciata in seguito alla messa in onda di un interessante programma trasmesso da Animal Planet dal titolo: “Sirene, il corpo trovato“, con il sottotitolo “un nocciolo di verità che vive sotto la leggenda delle mitiche sirene”.
Si trattava in realtà di un docu-fiction, in cui, come ha precisato l’emittente, la scienza é stata usata “come un trampolino verso l’immaginazione”. Ma evidentemente tanti telespettatori lo hanno preso per un documentario e alcuni giorni dopo all’istituto oceanografico sono arrivate delle lettere in cui si chiedevano spiegazioni scientifiche. Ecco dunque la precisazione: Nonostante le premesse, “non sono mai state trovate prove dell’esistenza di umanoidi acquatici”.
Eppure, non tutti sono d’accordo. Sono numerosi gli scienziati che hanno avanzato interessanti teorie sull’esistenza, nel passato evolutivo dell’uomo, della “scimmia acquatica, e cioè di una antenato acquatico in comune tra gli ominidi e le scimmie.
E sarebbero numerose anche le testimonianze di coloro che affermano di aver visto degli “umanoidi acquatici” tutt’ora viventi. Secondo i teorici della cospirazione, il Governo Americano (nella fattispecie proprio del NOAA) sarebbe a conoscenza di queste creature e addirittura starebbe inscenando un clamoroso cover-up (che giustificherebbe anche il comunicato del NOAA) per nascondere il fatto di essere in possesso del corpo di una sirena.
Prova di questo fatto, sarebbe il famoso suono oceanico “bloop” registrato nel profondo dell’Oceano Pacifico dal NOAA alla fine degli anni ’90. Teorie? Fantasie? Gli ingredienti per incuriosire il Navigatore ci sono tutti.

Un fondamento scientifico alla leggenda?

“C’era una volta una sirenetta che viveva in un meraviglioso mondo sottomarino. Un giorno, desiderosa di incontrare le persone della terra ferma, si avventurò sulla superficie…”. Questo è l’incipit del racconto per bambini dal quale la Disney ha tratto il famoso cartone animato “La Sirenetta”.
Eppure, si tratta di una storia raccontata in tutto il mondo, la storia di una creatura leggendaria e che è menzionata nelle mitologie di quasi ogni cultura umana. La gente di tutti i continenti raccontano di aver avuto contatti con questi esseri metà uomo e metà pesce, descrivendo tutti lo stesso animale mitico.
Alcuni si sono chiesti se dietro queste leggende possa nascondersi un nocciolo di verità. Potrebbero esistere realmente degli umanoidi acquatici intelligenti, parenti lontani dell’uomo, che hanno sviluppato il loro percorso evolutivo adattandosi a vivere nelle profondità dell’oceano e che hanno sviluppato una società complessa nella quale vivono nascosti per paura dei loro parenti umani? E’ quello che si sono chiesti gli autori di un documentario girato per l’emittente tv Animal Planet: “Sirene, il corpo trovato”.
Il docu-fiction valuta una possibilità basata su una teoria scientifica radicale – la teoria della “scimmia acquatica” – la quale sostiene che gli esseri umani abbiano attraversato una fase anfibia nel loro percorso evolutivo.
Ad un tratto, le grandi inondazioni costiere di milioni di anni fa costrinsero un gruppo dei nostri progenitori a spingersi verso l’interno, adattandosi definitivamente alla terra ferma dando vita alla specie dei primati arboricoli, mentre un altro gruppo, forse spinti dalla necessità di trovare cibo, cominciarono a spingersi sempre più in profondità nel mare, adattandosi alla vita acquatica.
Dopo questo adattamento, un gruppo di primati sarebbe ritornato sulla terra ferma conservando alcune delle caratteristiche sviluppate nell’ambiente marino, mentre un altro gruppo si sarebbe adattato definitivamente all’ambiente marino.
Quindi, mentre noi ci siamo evoluti in esseri umani terrestri, i nostri parenti acquatici si sarebbero evoluti in esseri umani anfibi, stranamente simili alla leggendaria sirena. Alcuni autori sostengono la versione contraria della teoria e cioè che il progenitore in comune fosse completamente acquatico e che alcuni gruppi, spinti dalla necessità di trovare cibo, si spinsero sulla terra ferma fino ad adattarsi completamente a respirare ossigeno allo stato gassoso. In ogni caso, la sostanza non cambia.
Come prova a sostegno della teoria, gli autori del documentario sottolineano le notevoli differenze riscontrabili tra l’uomo e gli altri primati. Anzi, alcune caratteristiche lo rendono molto più simile ai mammiferi marini che non ai primati terrestri. Questi i segni distintivi fondamentali:
  • la perdita del pelo cutaneo (i peli creano resistenza in acqua);
  • la capacità istintiva a nuotare (i bambini appena nati già sono in grado di nuotare);
  • il grasso sottocutaneo (per l’isolamento dall’acqua fredda);
  • il controllo del respiro (alcuni umani sono in grado di trattenere il respiro fino a 20 minuti, più ogni altro animale terrestre);
  • un cervello molto sviluppato, grazie ad una dieta ricca di frutti di mare;

La storia della teoria della “scimmia acquatica”

Nel corso del tempo, diversi autori si sono dedicati alla teoria della scimmia acquatica. In un libro del 1942, il biologo tedesco Max Westenhofer ipotizzò che i primissimi stadi dell’evoluzione umana fossero avvenuti in prossimità dell’acqua. Così egli scrive: “Postulare un modo di vita acquatico in una fase precoce dell’evoluzione umana è un’ipotesi sostenibile, per la quale si possono produrre ulteriori indagini e elementi di prova”.
Ma il vero padre della teoria è il biologo marino Alister Hardy che, già nel 1930, aveva ipotizzato che gli esseri umani possano aver avuto antenati acquatici. Ma solo nel 1960 decise di divulgare la sua teoria. L’occasione fu un discorso tenuto al British Sub-Aqua Club di Brighton il 5 marzo del 1960.
La tesi di Hardy si basa sulla convinzione che un gruppo di queste scimmie primitive, costrette dalla concorrenza con i loro simili e dalla scarsità di cibo, si sia spinta fino alle sponde del mare per andare a caccia di crostacei, molluschi, ricci di mare, ecc., nelle acque poco profonde al largo della costa.
Il biologo suppone che queste proto-scimmie acquatiche, spinte dalla necessità di rimanere sott’acqua per diverso tempo – proprio come è capitato per molti altri gruppi di mammiferi – si siano adattate all’ambiente acquatico fino a rimanere in acqua per periodi relativamente lunghi, se non in maniera definitiva. Hardy esplicitò definitivamente le sue idee in un articolo apparso su New Scientist il 17 marco 1960.
Dopo la pubblicazione dell’articolo, la teoria godette di un certo interesse per diverso tempo, ma fu progressivamente ignorata dalla comunità scientifica. Nel 1967, l’ipotesi fu evocata da Desmond Morris nel suo libro “La Scimmia Nuda“, nel quale si trova la prima volta l’utilizzo del termine “scimmia acquatica”.
La scrittrice Elaine Morgan, dopo aver letto il libro di Morris, divenne la principale sostenitrice e promotrice della teoria. Nei successivi 40 anni di carriera, la scrittice ha dedicato 6 libri alla divulgazione dell’ipotesi di Hardy.
Nel 1987, si tenne un simposio scientifico a Valkenburg, Olanda, per discutere la validità della teoria della Scimmia Acquatica. Dagli atti del convegno – pubblicati nel 1991 con il titolo “Aquatic Ape: Fact or fiction?” (Scimmia acquatica: realtà o finzione?) – emerge che gli scienziati non se la sentirono di sostenere l’idea che gli antenati dell’uomo fossero acquatici, ma che ci sarebbero alcune prove che avessero sviluppato l’abilità natatoria per alimentarsi nei fiumi e nei laghi, con il risultato che l’homo sapiens moderno può godere di brevi periodi di tempo in apnea.
Questa è solo una delle versioni “deboli” della teoria, utilizzata dai ricercatori per spiegare alcune caratteristiche umane che sono ancora avvolte nel mistero, quali la perdita del pelo cutaneo, la capacità di apnea, il grasso sottocutaneo e la capacità istintiva a nuotare dei neonati.
Sebbene l’ipotesi della Scimmia Acquatica spieghi abbastanza bene il sorgere di queste caratteristiche, la maggior parte dei paleoantropologi tende a rifiutare la teoria, non accettandola tra le principali spiegazioni dell’evoluzione umana.
Una lettura estrema della teoria di Hardy ha portato alcuni ricercatori indipendenti ha ipotizzare l’esistenza attuale, di umanoidi acquatici intelligenti che vivono in società complesse nel fondo dell’oceano. L’esistenza di queste timide creature sarebbe all’origine delle leggende sulle sirene, decantate anche da Omero nella sua Odissea. Ma è possibile ipotizzare l’esistenza di questi Umanoidi Acquatici? Potrebbero esserci delle prove?

Antiche testimonianze

La storia delle sirene non è recente come si pensa. Solitamente si fa risalire la leggenda ai racconti dei marinai ubriachi del 1500, che storditi dai fumi del rum e della solitudine, avrebbero potuto facilmente scambiare un delfino o una balenottera per una bella e sinuosa sirena.
In verità, alcune pitture rupestri ci fanno pensare che la consapevolezza umana delle sirene sia molto più antica. In una grotta di arenaria in Egitto esistono le rappresentazioni più antiche delle sirene. Sulle pareti della caverna sono rappresentate creature umane con la coda, equipaggiate con lance e reti.
Anche in epoca recente le testimonianze da parte dei pescatori sono state numerose. In molti casi, si racconta del recupero di grossi animali acquatici completamente infilzati con lancie e coltelli di origine sconosciuta. In alcune testimonianze di inizio secolo è possibile vedere lo stupore e lo sconcerto dei marinai.

Uno strano suono dal fondo dell’Oceano

Nell’estate del 1997, il NOAA, con l’ausilio di un idrofono equatoriale, registrò più volte un suono misterioso proveniente dagli abissi dell’Oceano Pacifico. Il suono aumentava rapidamente in frequenza per circa un minuto, ed era di ampiezza sufficiente per essere ascoltato dai sensori ad una distanza di oltra 5.000 chilometri.
L’origine del suono – battezzato “The Bloop” – è, come ammette il NOAA – di origine sconosciuta. Secondo alcuni, questo suono potrebbe essere la prova dell’esistenza di una specie sottomarina sconosciuta.
Il team di Paul Robertson, un ex dipendente del NOAA, nel 2007 stava indagando sugli inspiegabili spiaggiamenti di massa delle balene. Nell’esaminare i campini di tessuto dei corpi di alcune balene, i ricercatori si resero conto che i mammiferi erano stati danneggiati da sonar particolarmente potenti, utilizzati in diverse parti del mondo in occasione di esercitazioni navali.
L’inquinamento acustico marino è un fenomeno che in questi ultimi anni ha avuto un grande incremento. La nuova tecnologia Sonar utilizzata sia per la mappatura del fondo dell’oceano che per l’individuazione di bersagli sottomarini, emette vibrazioni sonore percettibili fino a centinaia di chilometri di distanza.
Quando una specie più sensibile, come le balene o i delfini, si trovi in prossimità dell’emissione del rumore subisce un vero e proprio trauma che la spinge ad una fuga precipitosa, fatale quando è diretta verso la superficie del mare. Secondo uno studio l’impatto di media frequenza di un sonar militare sull’udito di una balena è equivalente a quello di un motore di jet al decollo sull’udito di un essere umano che si trovi a tre metri di distanza.
La conclusione cui giunsero gli scienziati marini è che le onde sonore emesse dai sonar erano talmente potenti da spaventare quegli animali dotati di un udito così sensibile. Nel tentativo di sfuggire alla raffica di onde sonore, i mammiferi si erano spinti in acque troppo basse per sostenere le loro dimensioni enormi, finendo per arenarsi.
Per cercare di dimostrare questa teoria, Robertson e il suo team si servirono delle registrazioni di un idrofono di profondità. Fu proprio in quelle registrazioni che ascoltarono la prima volta il “bloop”.
Utilizzando un software audio, i ricercatori riuscirono ad isolare il suono di una creatura sconosciuta mescolata con i suoni delle balene e dei delfini. Dopo più accurate analisi, i ricercatori ebbero l’impressione che queste creature sconosciute comunicassero con i mammiferi, forse con l’intento di salvarli dal rumore del sonar.

Il corpo ritrovato

Qualche settimana dopo, ci fu un altro spiaggiamento di massa in Sud Africa. Anche in quella zona i ricercatori registrarono suoni simili sui proprio dispositivi. Robertson e il suo team si recarono sul posto per investigare.
Sulla spiaggia furono i resti di una creature sconosciuta all’interno dello stomaco di un enorme squalo bianco. Mentre esaminavano lo squalo, i ricercatori notarono una sorta di pugnale infilzato nel lato della bocca dello squalo.
Come aveva fatto ad arrivare quel pugnale lì? Una volta tirate fuori tutte le parte dallo stomaco dello squalo, cominciarono a studiare attentamente i resti per capire di cosa di trattasse. All’interno trovarono la testa della creatura, una mano quasi completa, un longo osso tipo coda-pinna.
Inoltre, i ricercatori trovarono anche uno strano strumento con un buco. In un primo momento non compresero cosa fosse, ma poi si ricordarono del pugnale nella bocca dello squalo. L’oggetto sembrava essere un perfetto astuccio per il coltello ricavato da una cosa o una spina dorsale di qualche grosso pesce. Ma chi aveva potuto produrre un oggetto simile?
Alcuni dei ricercatori si convinsero di trovarsi di fronte ad una sorta di “ominide acquatico intelligente”, una sirena! Ora avevano senso tutte le misteriose lance e coltelli trovati nei corpi di numerosi pesce nell’oceano.
Qualche giorno dopo, mentre il team stava per tornare negli Stati Uniti, i militari americani confiscarono i resti della creatura e i risultati della ricerca. Pare che il governo stesse studiano il fenomeno da molto tempo e che avesse utilizzato Robertson e la sua squadra per ottenere le informazioni che cercava. L’unica cosa che lasciarono fu la registrazione del famoso “bloop”.
Gli scienziati rimasero sconvolti dal fatto che avevano sequestrato tutti i risultati ottenuti con anni di duro lavoro, ma le registrazioni erano il vero tesoro da conservare. Grazie ad esse, avevano capito che le sirene erano in grado ci comunicare con i delfini e le balene.
Questa è la prima e l’unica volta che si possiede la testimonianza di una comunicazione interspecie. Come alcuni sanno, in alcuni paesi, i delfini aiutano i pescatori umani a catturare i pesci, in cambio di una lauta porzione di bottino! Dove hanno imparato i delfini a fare questo?

In conclusione

In una intervista recente, Robertson ha dichiarato di non sapere se le sirene esistono o no, a differenza di uno dei suoi colleghi il quale pensa che esistano e che bisogna solo trovarle. Secondo Robertson, se le sirene esistono e sono sopravvissute così a lungo è perché sanno nascondersi.
L’unica cosa di cui è convinto il ricercatori è quella di non voler contribuire mai più alla ricerca delle sirene: “Non credo che gli essere umani sarebbero in grado di coesistere con le sirene senza sterminarle”. Il ricercatore sta ancora cercando di ottenere il bando dello sviluppo e della sperimentazione di armi Sonar per salvare balene, delfini e sirene.
Personalmente non ho mai creduto nelle sirene, eppure questo documentario mi fa capire che le profondità dell’oceano sono veramente la frontiera dell’esplorazione umana. Come spesso si dice, conosciamo meglio la superficie della Luna, che non le profondità del mare.
Che si tratti o no di sirene, bisogna prendere atto che nel fondo dell’oceano ci sono specie sconosciute e misteriose che ancora non conosciamo e che speriamo di non incontrare per non sterminarle (per dirla con Robertson).

giovedì 22 gennaio 2015

RELATORI AL CONGRESSO DELLA SCIENZA: GLI ANTICHI INDIANI PRATICAVANO IL VOLO SPAZIALE MIGLIAIA DI ANNI FA

Secondo i testi religiosi indiani, i Vimāna erano macchine in grado di volare nell'aria, nello spazio e di immergersi sott'acqua. Si racconta del loro utilizzo anche nelle guerre mitologiche del Mahābhārata e del Ramayana. Solo racconti leggendari? In un documento presentato al 102° Indian Science Congress, l'esistenza dei vimāna viene presa molto seriamente.

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Un controverso documento è stato presentato nel corso della 102° edizione del prestigioso Indian Science Congress Association, nel quale si afferma che le antiche civiltà indiane praticavano il volo spaziale avanzato, migliaia di anni prima della scoperta del volo da parte dei fratello Wright nel 1903.
Il documento è stato presentato dal capitano Anand Bodas e Ameya Jadhav all’interno di una sessione intitolata “Scienze Antiche in Sanscrito”, durante la quale sono stati presi in considerazione i testi vedici nei quali si parla di macchine volanti in grado di compiere manovre molto sofisticate, velivoli capaci di volare attraverso i continenti e persino nello spazio, tutto questo oltre 7 mila anni fa.
“C’è una storia ufficiale e una storia non ufficiale”, ha detto il capitano Bodas alThe National. “La storia ufficiale ha registrato solo il volo dei fratelli Wright nel 1903, ma il vero inventore del primo velivolo è stato un saggio di nome Bharadwaja, vissuto circa 7 mila anni fa”.
Secondo il capitano, gli antichi indiani erano in possesso di tecnologia che poi è stata in qualche modo dimenticata, a causa del passare del tempo e dei saccheggi da parte delle dominazioni straniere. Forse tutto è andato perduto in qualche cataclisma globale avvenuto in epoca antica.
Tuttavia, come riferisce The Times of India, nonostante tra i suoi sottoscrittori ci siano ben sei premi Nobel e altri accademici e scienziati decorati, il documento è stato accolto dai soliti con scetticismo e bollato come “pseudo-scienza”, in quanto si tratta di citazioni di testi religiosi e non di prove empiriche.
Quello delle macchine volanti, infatti, è un tema molto frequente nei testi religiosi indiani, una raccolta di antichissimi scritti sacri chiamati Veda. Essi costituiscono la più antica testimonianza di letteratura sanscrita e le più antiche scritture dell’induismo.
Al loro interno è possibile leggere di favolose macchine volanti denominateVimāna. Secondo le descrizioni di questi testi sacri, i vimāna sono in grado di volare nell’aria, nello spazio e di immergersi sott’acqua.
Non sono state individuate, finora, prove fisiche dell’esistenza di tali oggetti, ma la loro descrizione è diffusa, e viene persino descritto il loro uso nelle guerre mitologiche del Mahābhārata e del Ramayana. Il Vaimanika Shastra è un vero e proprio manuale che descrive, non solo come pilotare un vimāna, ma anche le sue caratteristiche tecniche.
Nei Veda, si menzionano diversi tipi di Vimāna, con diverse forme e dimensioni: il sole e carri volanti che ruotano tirati da animali, di solito cavalli; l’agnihotra-vimāna, con due motori (agnir in sanscrito significa “fuoco”), il gaja-vimāna, con più motori (gaja in sanscrito significa “elefante”).Il maggior detrattore del documento è stato lo scienziato della Nasa Ram Prasad Gandhiraman, il quale ritiene che certe convinzioni sono il frutto di un mix di scienza, mitologia e nazionalismo indù.
Tuttavia, altri studiosi, come alcuni scienziati statunitensi di origini indiane, hanno trovato l’esame delle antiche testimonianze piuttosto convincente, affermando: “La conoscenza cresce sempre, il suo flusso non si ferma mai. Quindi, se tutta questa conoscenza era disponibile nei giorni antichi, dobbiamo capire dove si è fermata. Perchè non è giunta fino a noi? Cosa l’ha fermata? Non sono a conoscenza della cronologia degli eventi, ma sono assolutamente disposto a saperne e a capirna di più”. Questa sì che è una mentalità scientifica!

lunedì 19 gennaio 2015

L’ENIGMA IRRISOLTO DEI SARCOFAGI GIGANTI DEL SERAPEUM EGIZIO DI SAQQARA

Giganteschi sarcofagi di granito dal peso di 70 tonnellate posizionati in anguste nicchie scavate nelle profondità della terra. È l'enigma di Saqqara, uno dei siti archeologici più antichi e vasti dell'antico Egitto. Come è stato possibile posizionare questi mastodontici manufatti in spazi così ristretti? E, soprattutto, perché?sarcofagi-serape-saqqara

Situato sulla riva ovest del Nilo, a circa 30 km a sud de Il Cairo, si trova il sito di Saqqara, una delle aree funerarie più antiche e vaste di tutto l’antico Egitto.
Sull’immensa necropoli torreggia la piramide di Teti, il primo sovrano della VI dinastia d’Egitto. Il faraone costruì la piramide e il vicino tempio mortuario durante il suo regno, più di 4 mila anni fa.
La piramide di Teti è molto importante, in quanto contiene le iscrizioni più antiche del mondo, parte dei cosiddetti “Testi delle Piramidi”, una collezione di antichi scritti religiosi risalenti al 2400 a.C., contenenti passaggi su Osiride, il dio egizio dell’aldilà, e istruzioni su come preparare le spoglie del faraone in vista della sua ascesa al cielo dopo la morte.
“Nei testi delle piramidi tutto ruota intorno alle stelle, al re che diventa una stella, e che ascende al cielo per raggiungere Osiride-Orione nel firmamento”, spiega Robert Bauval, coautore de Il Mistero della Genesi[Disponibile su IBS].
Quello che è importante sottolineare è che gli antichi egizi credevano che in un’epoca chiamata “ZP TPJ” (solitamente trascritto come Zep Tepi, letteralmente “il primo tempo”), gli dèi fossero vissuti tra di loro, per poi scomparire di nuovo.
“Quello che vogliono dire i testi delle piramidi è che l’uomo può ricongiungersi di nuovo agli dei. Per farlo, bisogna attraversare la morte: stiamo parlando di un viaggio extra-dimensionale dell’anima”, commenta Philip Coppens, autore diL’enigma di Rosslyn. La verità dietro ai misteri templari e massonici.
“Gli egittologi chiamano questi monumenti tombe, ma per gli egizi non erano affatto tombe, ma porte per l’aldilà”, continua Bauval. “Era attraverso queste strutture che il re cominciava il suo viaggio verso il mondo ultraterreno, andando incontro a ostacoli, pericoli e minacce. Se avesse superato questo minacce, avrebbe avuto accesso al regno di Osiride”.
Rimaste indisturbate sotto le sabbie del deserto per secoli, le rovine di Saqqara custodiscono il vero mistero di tutto il sito, un enigma situato ad appena 800 metri dalla piramide di Teti.
Nel 1850, l’archeologo francese Auguste Mariette fece una scoperta straordinaria: un enorme bunker sotterraneo, il Serapeo di Saqqara, un dedalo di gallerie scavato nella roccia.
assuanAl suo interno, sono posizionati enormi sarcofagi di granito che si pensa siano stati trasportati dalla città di Assuan a circa 960 chilometri di distanza. Se ne contano a dozzine e pesano circa 70 tonnellate ognuno, ciascuno ricavato da un unico blocco di granito, tanto levigato da potercisi specchiare.
Ma il vero mistero è come siano riusciti gli antichi egizi a trasportare questi massi enormi per chilometri, per poi posizionarli nell’angusto labirinto sotterraneo del Serapeo. A quale scopo?
“È un autentico rompicapo”, commenta Erich Von Dänikem, uno dei padri fondatori della Teoria degli Antichi Astronauti. “Bisogna immaginare gli antichi egizi che scavato chilometri e chilometri di gallerie sotterranee nella roccia, ricavandone delle nicchie sui lati. Poi, viaggiano per giorni fino a raggiungere la città di Assuan per estrarre dalla roccia il granito più duro che esista e lo trasportano, in qualche modo a noi sconosciuto, giù per questi tunnel sotterranei”.
La maggior parte degli studiosi ipotizza che il Serapeo e i suoi enormi sarcofagi siano stati realizzati per ospitare i resti mummificati dei sacri Tori Api, ritenuti dagli antichi egizi come venuti dal cielo e onorati con cerimonie molto elaborate.
Tuttavia, quando Mariette aprì i sarcofagi scoprì che essi erano vuoti, ad eccezione di poche ossa. Sul sito, infatti, venne rinvenuta la mummia di un solo Toro Api.
Questo dato ha fatto ritenere ad alcuni studiosi che in realtà gli egizi temessero i Tori Api, piuttosto che venerarli, perché creati dagli dèi: essendo animali sacri, si attendeva che morissero di morte naturale e una volta morti venivano distrutti, frantumandone le ossa che poi venivano sigillate nei sarcofagi.
Si tratta di una pratica unica nel suo genere, dato che in antico Egitto anche gli animali venivano mummificati, perciò, quando si trovano sarcofagi con dentro solo un mucchio di ossa, bisogna chiedersi perché quando moriva un Toro Api, gli egizi ne frantumavano le ossa e ci mettevano sopra un coperchio di 35 tonnellate? Volevano assicurarsi che non sarebbero più tornati in futuro?Ad ogni modo, gli studiosi sono perplessi, dato che non si riesce a comprendere fino in fondo lo scopo originario di tali casse. Perchè molte di esse sono vuote?
Alcuni ipotizzano che in realtà il Serapeo di Saqqara sia molto più antico di quanto si pensi e che sia solo stato riutilizzato per scopi sacri dagli egizi vissuti all’epoca della VI dinastia. Secondo i Teorici degli Antichi Astronauti, i sarcofagi potrebbero provenire direttamente dall’epoca predinastica, quando gli “dèi” erano qui sulla Terra.
Se così fosse, i sarcofagi potrebbero aver avuto una funzione a noi del tutto sconosciuta e che difficilmente potremmo comprendere con le conoscenze attuali. Il Serapeo di Saqqara consegna alle generazioni attuali un messaggio ancora da decifrare e che potrebbero rivelare la vera provenienza e il destino del genere umano.

venerdì 16 gennaio 2015

IL MANOSCRITTO MISTERIOSO DI VOYNICH


Era il 1912 quando un collezionista di libri rari, Wilfred Voynich, saputo dell'esistenza di un misterioso manoscritto venuto alla luce in un antico baule conservato nella scuola gesuitica di Mondragone a Frascati, era riuscito ad accaparrarselo per un'ingente somma. Si trattava di un volume in ottavo, di circa 18 per 27 cm, composto di 204 pagine. In origine ne aveva altre 28, ma erano andate perdute. Era scritto in cifrato che a prima vista si sarebbe detto la tradizionale, consueta calligrafia medievale. Quasi tutte le pagine erano come ricamate da lievi piccoli disegni di corpi nudi femminili, diagrammi astronomici e ogni genere e tipo di pianta a più colori.

                                                                                                                                                                   
Il manoscritto era accompagnato da una lettera, datata 19 agosto 1666, scritta da Joannes Marco Marci, rettore dell'Università di Praga. La lettera era indirizzata al celebre gesuita e studioso Athanasius Kircher - oggi ricordato soprattutto per gli studi sull'ipnosi - e si denunciava che il libro era stato acquistato per 600 ducati dall'imperatore del Sacro Romano Impero, Rodolfo II di Praga. Kircher era un esperto di crittografia, avendo dato alle stampe un testo sull'argomento datato 1663, in cui annunciava al mondo di essere riuscito a decifrare i misteriosi geroglifici egiziani. La cosa ci induce a ritenere il personaggio un tipo un po' troppo fantasioso, se è vero, come sappiamo, che la loro decifrazione avvenne soltanto un secolo e mezzo dopo per opera dello Champollion. Da quel che pare, Kircher si era messo al lavoro per la decodifica di qualche pagina, su invito del precedente proprietario, che diceva di aver praticamente dedicato l'intera sua vita nell'inutile operazione. Ora, gli faceva pervenire tutto il resto del volume.
Non sappiamo per quali vie il manoscritto era approdato a Praga, ma la possibilità più accreditata è che vi venisse portato dall'Inghilterra su iniziativa del famoso mago di corte della regina Elisabetta, il dottore mirabile John Dee, che aveva visitato Praga nel 1584. Secondo alcuni, Dee avrebbe ottenuto il manoscritto dal duca di Northumberland, che aveva saccheggiato e depredato i monasteri inglesi su preciso ordine del re Enrico VIII. Più tardi, lo scrittore inglese Sir Thomas Browne riferisce che il figlio di Dee parlava di «un libro che non conteneva null'altro che geroglifici», che lui aveva esaminato e studiato a Praga. Per Marci, invece, il misterioso volume era frutto del lavoro esoterico di un altro grande, il monaco e scienziato del XIII secolo Ruggero Bacone.
Il manoscritto Voynich (come lo si chiama oggi) costituisce davvero un bel mistero proprio perché sembra fin troppo chiaro: con tutti quei disegni di piante e vegetali, a prima vista si direbbe infatti un "erbario", un libro che insegna ad estrarre succhi e pozioni benefiche dalle piante. D'altra parte è normale aspettarsi dei diagrammi e delle tavole astronomiche e zodiacali in un erbario, perché molte piante andavano raccolte con la Luna piena o quando stelle e pianeti si trovavano in una data, precisa collocazione celeste.
Neppure Kircher aveva avuto successo nella decrittazione e alla fine, arresosi, lo aveva consegnato al collegio gesuita di Roma, da dove era poi transitato nelle mani dei Gesuiti di Frascati.
Da parte sua, Voynich era certo che il manoscritto non avrebbe continuato a restare un enigma, una volta che altri studiosi avessero avuto l'opportunità di visionarlo. Così aveva distribuito copie dell'originale a tutti gli interessati. Il primo grosso nodo da sciogliere era riuscire a riconoscere la lingua in cui era scritto: latino, inglese medievale, forse persino lingua d'Oc. La cosa non sembrava impossibile, dal momento che i disegni delle piante erano titolati, sebbene con scritte in codice. Ma molti nomi erano immaginari. Lo stesso per le costellazioni: potevano essere riconosciute fra quelle presenti nel firmamento, ma questa volta era il loro nome che non si poteva dedurre. Gli specialisti in decifrazione si impegnarono a fondo, applicando i più diffusi metodi di decrittazione arrivando a dedurre 29 diverse singole lettere o simboli, ciò nonostante ogni tentativo di tradurre il testo in una lingua conosciuta era fallito. Ma ciò che più di ogni cosa indispettiva gli studiosi stava nel fatto che, per quanto strano, il testo non sembrava affatto scritto seguendo la chiave di un codice, ma come se l'autore lo avesse scritto in piena scioltezza, come chi scrive nella propria lingua madre. Molti analisti, filologi, studiosi, linguisti, astronomi, profondi conoscitori dei metodi baconiani si offrirono; persino la Biblioteca vaticana mise a disposizione i suoi uffici e i suoi libri pur di arrivare a una conclusione. Invano. Il misterioso manoscritto continuò a rifiutarsi di svelare il suo segreto o, forse è meglio dire, i suoi segreti.
Poi nel 1921 un professore di filosofia dell'Università della Pennsylvania, William Romaine Newbold, annunciò che alla fine ce l'aveva fatta a svelare il codice segreto del libro. Lo avrebbe annunciato nel corso di un incontro da tenersi a Philadelphia nell'ambito della Società americana di filosofia. La prima cosa che aveva attuato era stato far corrispondere a ciascun simbolo una lettera dell'alfabeto romano, riducendo il gruppo da 29 a 17 unità. Utilizzando il vocabolo latino conmuto (o commuto, che significa permuto) come parola chiave era riuscito a ricavare più di quattro versioni del testo, di cui l'ultima, quella giusta, derivata direttamente da vocaboli latini e da loro anagrammi. A questo punto era bastato ricomporre il tutto per ottenere uno straordinario manoscritto scientifico, attestante che Bacone era un genio incomparabile.

La cosa, d'altra parte, è nota. Era stato proprio Bacone, in un passo del suo Opus maius, a instillare in Colombo l'idea che le Indie si sarebbero potute raggiungere salpando dalla Spagna e veleggiando verso occidente. In giorni improntati allo studio di rigide discipline quali l'alchimia e dogmatiche scienze così come erano state impostate dal grande Aristotele, Bacone aveva invece difeso una conoscenza nuova, basata sull’esperimento e sull'osservazione e per questo era stato incarcerato. Perché rigettando l'autorità aristotelica egli rinnegava anche quella della Chiesa. Nel suo La città di Dio Agostino già aveva avvisato l'umanità di stare attenta alle insidie della scienza e dell'intelletto, primi impedimenti verso la salvezza. Ruggero Bacone, al pari del suo omonimo elisabettiano Francesco, si rendeva ben conto che un simile atteggiamento significava il suicido dell'intelletto; tuttavia, ciò malgrado, si deve lo stesso riconoscere che essendo anche figlio del suo tempo, Opus maius è un'opera colma di pregiudizi e grossolani errori e superstizioni.
Ma, se Newbold ha ragione, Bacone fu uno dei più straordinari scienziati prima di Newton. Era solito usare un microscopio da lui costruito per osservare cellule e spermatozoi - a questo si riferivano i disegni di animaletti simili a girini sui margini del libro - e realizzò un telescopio molto prima di Galileo, scoprendo che la nebulosa di Andromeda era una galassia a forma di spirale. Newbold presenta un'osservazione di Bacone che attribuisce proprio alla descrizione di questo corpo celeste: In uno specchio concavo ho potuto osservare una stella a forma di chiocciola, fra la nave di Pegaso, la corona di Andromeda e la testa di Cassiopea. (È noto che Bacone ben conosceva l'utilizzo della lente concava come specchio ustorio). Sempre Newbold dichiara che non aveva la minima idea in merito a ciò che avrebbe osservato puntando un telescopio in quella direzione. Grande era dunque stata la sua sorpresa nel constatare che la "chiocciola" altro non era che la nebulosa di Andromeda.
Il primo a mettere in risalto alcuni dei punti deboli del metodo proposto da Newbold, è stato David Kahn, esperto crittografo, nel suo libro dal titolo The Codebreakers. Il metodo consiste nel "raddoppio" delle lettere componenti una parola. Così, per esempio, "oritur" diventa or-ri-it-tu-ur. La soluzione del testo avviene con l'ausilio della parola chiave "conmuto" e con l'aggiunta della lettera "q". Ma come avveniva il processo contrario, vale a dire, quando Bacone trasferiva il testo originale nel cifrato? Kahn afferma: «Molti codici univoci, a un solo indirizzo, sono stati mal interpretati; è certamente possibile cifrare dei messaggi, ma è pressoché impossibile decrittarli. Newbold sembra l'unico caso conosciuto in cui la situazione si presenta esattamente al contrario».
Newbold morì nel 1926, a soli sessant'anni. Due anni dopo, il suo amico Roland G. Kent diede alla stampa il risultato delle sue ricerche in un libro intitolato The Cipher of Roger Bacon, un testo ampiamente accettato da illustri studiosi, fra cui, per esempio, Étienne Gilson.
Ma c'era un allievo che, proprio perché aveva approfondito all'estremo lo studio del sistema applicato da Newbold, non se ne dichiarava soddisfatto. Era il dottor John M. Manly, filologo capo dell'istituto di lingua inglese presso l'Università di Chicago, destinato a diventare assistente del grande Herbert Osborne Yardley - celebrato come il massimo esperto in decodifica di tutti i tempi - quando nel 1917 il servizio segreto degli Stati Uniti decise di aprire un dipartimento appositamente dedicato alla decrittazione di codici segreti. Manly aveva dato alle stampe gli otto volumi della edizione definitiva dell’opera di Chaucer, mettendo a confronto non meno di ottanta versioni del manoscritto medievale dei Racconti di Canterbury. Una delle conquiste più eclatanti e prestigiose della sua carriera era stata la decifrazione di una lettera in codice trovata all'interno del bagaglio di una spia tedesca che si faceva chiamare Lothar Witzke, catturata a Nogales, in Messico, nel 1918. Nel corso di tre giorni di full immersion, Manly era riuscito a risolvere le dodici trasposizioni cifrate, attraverso uno slittamento multiplo in scala orizzontale di gruppi di tre e quattro lettere, finalmente disposti nella versione finale secondo una disposizione verticale. Davanti alla corte marziale, Manly era stato in grado di leggere a voce alta il messaggio cifrato, inviato alla spia dal ministro Tedesco in Messico: «Il latore di questo messaggio è un membro dell'impero e si muove sotto le mentite spoglie di un cittadino russo di nome Pablo Waberski. In realtà si tratta di un agente segreto tedesco...». Questo fatto fu la prova schiacciante della sua colpevolezza. L'uomo era stato condannato a morte, anche se poi la pena era stata commutata nel carcere a vita da un gesto di magnanimità del presidente americano Wilson.




Ora Manly si era dedicato all'analisi del libro di Newbold e del suo metodo, giungendo a concludere che l'autore si era in pratica autoingannato. L'anello debole di tutto il complicato sistema di decifrazione consisteva nel processo di anagramma. Molte frasi, infatti, potevano essere anagrammate in dozzine di altre frasi tutte diverse fra loro, un metodo tipico di Bacone, tanto che molti suoi sostenitori si facevano forti di questa sua caratteristica per indicare in lui il vero autore delle opere attribuite a Shakespeare. Per una frase che contempli anche soltanto un centinaio di lettere, non esiste in pratica un metodo assoluto che garantisca che solo e soltanto quel dato aggiustamento anagrammatico sia quello corretto, l'unica soluzione. In merito, Kahn propone il semplice esempio delle parole "Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te", anagrammabili in almeno un migliaio di altre frasi e versioni tutte diverse.
Inoltre Newbold aveva classificato alcuni "tratti calligrafici abbreviati" come segni di base per il suo sistema interpretativo. Quando Manly li aveva osservati con l'ausilio di una potente lente di ingrandimento si era invece reso conto della loro vera natura: niente di più che semplici impuntature della penna che si era come incastrata nella pergamena lasciandosi dietro lettere e segni incompleti. Insomma, i casi in cui Newbold veniva colto in plateale errore erano così numerosi da poter tranquillamente asserire che Manly aveva demolito sin dalle fondamenta la sua ipotesi di decifrazione del codice criptato adottato da Ruggero Bacone nel misterioso manoscritto.
Da quell'anno in avanti - siamo nel 1931 - ci furono molteplici altri tentativi di decodifica. Nel 1933 un medico esperto nello studio dei tumori, il dottor Leonell C. Strong, pubblicò alcuni frammenti di traduzione, rivelando con sua grande soddisfazione che il testo altro non era che un erbario scritto da uno studioso inglese, certo Anthony Ascham. Fra le altre rivelazioni, Strong svelò anche una ricetta contraccettiva che sembrava funzionare assai bene. Ciò che però Strong non riuscì mai a chiarire compiutamente fu il sistema seguito per giungere alla comprensione del testo e così la sua proposta non venne in pratica tenuta in conto da nessuno.
Poi era stata la volta di William F. Friedman, il quale negli ultimi anni della seconda guerra mondiale aveva dato corpo a un gruppo di studiosi dedito all'analisi del manoscritto. La fine del conflitto aveva fatto sciogliere il gruppo e non si era approdati a nulla. Ma Friedman aveva lo stesso fatto osservare come il manoscritto Voynich differisca da tutti gli altri scritti in codice per un sostanziale, importante aspetto. Di norma, una delle prime regole messe in atto dall'inventore di un codice segreto è quella di evitare le ripetizioni che sono appigli di facile individuazione e che consentono a chi si appresta alla decifrazione di avere alleati seminati nel testo (per esempio, il gruppo reiterato di tre lettere, nella lingua inglese, potrebbe facilmente essere decifrato come "and" e "thè"). Ebbene, il manoscritto Voynich presenta una grande abbondanza di ripetizioni, molte di più di un testo cifrato classico. Questa osservazione portò Friedman a immaginarlo come scritto in un linguaggio artificiale che, per il semplice motivo della chiarezza, non può fare a meno di utilizzare le ripetizioni, a differenza di un linguaggio naturale complesso. La cosa però presuppone che Ruggero Bacone (o chi scrisse il manoscritto) desiderasse così ardentemente velare il significato delle sue parole da mettere in atto una strategia estremamente sofisticata, tanto da essere considerata inaccessibile persino dai grandi esperti di messaggi in codice. E tutto questo per un monaco del XIII secolo, che non si vede perché necessitasse di utilizzare chissà quale codice occulto, ci pare veramente cosa improbabile...
Ma sta qui, proprio in questo, la vera e profonda chiave dell'arcano. Noi oggi ancora non sappiamo perché il manoscritto venne redatto, da chi e in quale linguaggio, ma quand'anche venissimo a capo di questi interrogativi, continueremmo a non vedere una buona ragione di tanta fatica per l'invenzione di un codice assolutamente impenetrabile. I primi testi criptati sono conservati nella Biblioteca vaticana e risalgono al 1326 (quando Ruggero era un bambino) e raccolgono molto semplicemente soltanto dei nomi in codice di personaggi legati ai partiti politici dei Ghibellini e dei Guelfi, rispettivamente sostenitori della causa imperiale e papale. Nel testo i Ghibellini erano detti gli Egiziani, mentre i Guelfi erano i Figli di Israele. (Facile, con queste premesse, indovinare da che parte stava il redattore del codice!). Le prime "sostituzioni" cifrate, occidentali moderne iniziano a far data dal 1401. Il primo trattato di codici segreti, il Poligraphia di Giovanni Tritemio, fu pubblicato soltanto nel 1518, due anni dopo la morte dell'autore. Per questo diventa difficile immaginare che Ruggero Bacone o qualsiasi altro inventore nel secolo immediatamente successivo alla sua scomparsa si sia potuto sobbarcare un rovello mentale così straordinario da creare un codice tanto sofisticato da non essere stato decifrato neppure ai nostri giorni. Kahn prova a immaginare perché l'ipotetico redattore del misterioso erbario (ciò che, in definitiva, parrebbe essere a prima vista il manoscritto Voynich) ci tenesse tanto a nascondere il suo lavoro, ricordando il più antico caso di occultamento che la storia ricordi, ossia quello rinvenuto su una tavoletta di argilla impressa con caratteri cuneiformi e databile attorno al 1500 a.C.: «La tavoletta contiene la prima formula a noi nota per la smaltatura della ceramica. L'ignoto scriba, geloso della sua straordinaria scoperta, utilizza i segni cuneiformi... nella loro accezione meno comune». Possiamo quindi immaginare che l'autore del manoscritto Voynich fosse un abile erborista desideroso di fermare sulla carta, per sé e per i suoi allievi, le ricette messe a punto con tanta applicazione e fatica, nella - in questo caso più fondata che mai - speranti di evitare che divenissero preda di qualche concorrente. 
E’ stata forse questa la molla che ha spinto l'antiquario, esperto di libri, Hans Kraus a entrare nella storia dei manoscritto. Quando nel 1960, alla venerabile età di novantasei anni, Ethel Voynich morì, Kraus fece di tutto per entrare in possesso del manoscritto dagli eredi, per poi metterlo all'asta per la bellezza di 160.000 sterline. La promessa caldeggiata era che chi fosse riuscito a decifrare il misterioso testo avrebbe certamente scoperto informazioni che avrebbero scritto una nuova pagina della storia dell'uomo. Insomma, un'opera che una volta decodificata avrebbe visto il suo valore salire alle stelle. Ma non si era fatto avanti nessuno e così alla fine, nel 1969, Kraus pensò bene di donare il libro alla Università di Yale dove tuttora si trova, in attesa che qualche ispirato decifratore possa trovarne la chiave interpretativa.


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