martedì 2 agosto 2016

LA ROCCIA DI JUDACULLA: STORIE DI ANTICHI GIGANTI E DI CODICI PREISTORICI INDECIFRABILI

La roccia è stata studiata da ricercatori di tutto il mondo, ma nessuno, finora, è mai riuscito a decifrare gli enigmatici petroglifi scolpiti su di essa, o capito che possa averli realizzati. Si tratta di uno dei più grandi misteri archeologici del Nord America.

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Viaggiando ad ovest di Asheville, nella Carolina del Nord e attraversando la frontiera con la Conta di Jackson, si giunge nella piccola comunità di Tuckasegee, uno dei luoghi inseriti nel National Register of Historic Places listings in Jackson County.
Qui è possibile incamminarsi su una strada sterrata che corre tra due pascoli e giungere in uno dei luoghi più misteriosi e, paradossalmente, sottovalutati degli Stati Uniti orientali.
In questo luogo si trova la sconcertante roccia conosciuta come Judaculla Rock, un grosso masso di pietra ricoperto da una selva di strani disegni che secondo alcuni ricercatori potrebbero risalire ad oltre 10 mila anni fa.
Secondo la leggenda Cherokee documentata alla fine del 1800 dall’etnologo James Mooney, i segni sulla roccia sarebbero stati creati da Judaculla, un gigante dagli occhi a mandorla che ha dominato le montagne in un tempo remoto. Noto anche come Tsul’Kalu, era considerato il Grande Signore della Caccia, un essere potente che poteva saltare da una montagna all’altra e che aveva la capacità di controllare il tempo.
Tra tutti i simboli curiosi incisi sulla grande roccia, un’immagine particolare si distingue dalle altre: l’impronta di una mano con sette dita. Secondo la tradizione, Judaculla avrebbe lasciato la sua impronta sulla roccia alla fine di uno dei suoi salti, usando il masso per tenersi in equilibrio.
In verità, le leggende locali riguardanti TsulKalu sono numerose, ma secondo alcuni ricercatori farebbero tutte riferimento ad un periodo antico durante il quale dei “misteriosi giganti” abitavano in nord America.

Le curiose incisioni

La grande roccia è completamente ricoperta di incisioni rupestri, così numerosi da rendere difficile la distinzione delle singole forme. Il numero e la densità delle incisioni suggeriscono che essi non furono scolpiti in un unico momento, ma in fasi successive. Le incisioni più antiche risalirebbero a 10 mila anni fa, mentre le più recenti a non meno di 3 mila anni.
Sulla roccia sono presenti linee curve, marcature, strutture a ragnatela e altri strani segni. Alcuni pittogrammi sembrano essere animali, altri sembrano rappresentare figure umane. La realizzazione e il significato del petroglifi rimane sconosciuta agli scienziati. Nè gli archeologi, nè i vecchi residenti sono stati in grado di decifrare i segni.
Si tratta di un codice preistorico? Una sorta di messaggio cifrato per le generazioni future? Difficile a dirsi, anche perchè nella zona non ci sono altre rocce con incisioni simili. La Roccia di Judaculla rappresenta un unicum.
Sono state avanzate numerose teorie e ipotesi nel corso degli anni. L’unica cosa che è certa è che il manufatto precede l’insediamento dei Cherokee nella Carolina del Nord. Tuttavia, la sua origine rimane ancora avvolta nel mistero.

Un luogo sacro e misterioso

Per molte generazioni, gli indiani hanno considerato questo posto come un luogo sacro.
Anche negli ultimi anni, il sito è stato utilizzato in segreto da numerosi gruppi di studenti della vicina Western Carolina University, soprattutto perchè pare che il sito rappresenti un punto caldo dal punto di vista paranormale,
La pietra si trova alla base di una montagna e sotto di essa scende parte una grande vena di rame. L’intera montagna sembra essere piena di minerali e metalli. Questa disposizione è in grado di generare anomalie nel campo elettromagnetico intorno alla roccia, tanto da poter indotto gli antichi a considerarlo un luogo sacro. Alcuni testimoni hanno segnalato anche la presenza di inquietanti fonti luminose volanti intorno alla pietra e numerosi UFO apparire nella radura dove si trova.
Secondo un’antica tradizione, ci sarebbero altre due pietre simili a quelle di Judaculla, una delle quali è stata sepolta durante le attività minerarie del XX secolo, l’altra non è mai stata scoperta, forse sepolta sotto la vegetazione o irriconoscibile per la grave erosione.
Secondo alcuni archeologi, la reliquia di Judaculla potrebbe essere la punta di un iceberg. Considerato che il sito non è mai stato scavato, non si può escludere che altri segni antichi e manufatti possano trovarsi a breve distanza sotto il terreno circostante.
Chiunque vede la pietra per la prima volta elabora una teoria diversa sul significato delle incisioni. Alcuni pensano che possa trattarsi di una mappa, altri di un trattato di pace, di un piano di battaglia, di astratti simboli religiosi, o forse una vera e propria Stele di Rosetta che fornisce la chiave per l’interpretazione di una lingua finora sconosciuta. La caratteristica più curiosa è che, nonostante il gran numero di incisioni, nessuna di esse si presenta come un’immagine immediatamente riconoscibile.
“Nessuno può dire con certezza cosa significhino le immagini sulla roccia”, spiega Scott Ashcraft, archeologo dell’US Forest Service che ha studiato e fotografato la roccia per anni. “Noi non sappiamo il loro significato. E’ andato perduto nella storia… Quando si accende un fuoco nelle vicinanze della roccia, le immagini sembrano prendere vita, e forse uno sciamano utilizzava questo rito per entrare in contatto con il mondo degli spiriti”.
In ogni caso, la maggior parte degli studiosi sono d’accordo su una cosa: questo è un posto speciale: “mentre il fuoco danza vivace e le ombre si allungano, la roccia sembra parlarti… volendo custodire un segreto che forse rimarrà indecifrabile”.

venerdì 3 giugno 2016

NUOVI STUDI SULLE PIRAMIDI DI VISOKO SPINGONO L’INIZIO DELLA CIVILTÀ INDIETRO DI 20 MILA ANNI

Una nuova serie di analisi condotte dal dottor Sam Osmanagich su alcuni campioni organici rinvenuti all'interno della Piramide del Sole rivelano una datazione di circa 30 mila anni. Se confermati, gli entusiasmanti risultati costringono a riconsiderare la comprensione dello sviluppo della civiltà e della storia umana, che attualmente si fa iniziare a circa 9 mila anni fa.

piramidi bosnia

La valle bosniaca delle Piramidi è un complesso di 4 antiche piramidi situato nel fertile bacino del fiume Visoko, a circa 40 chilometri a nordovest di Sarajevo, Bosnia-Erzegovina.
Scoperto nel 2005 dal dottor Sam Osmanagich (Foreign Member della Russian Academy of Natural Sciences e Anthropology Professor presso l’American University in Bosnia-Herzegovina), il sito è al suo ottavo anno di scavo.
I ricercatori hanno individuato quattro strutture monumentali: la Piramide del Sole, la Piramide della Luna, la Piramide del Drago e la Piramide dell’Amore.
L’intero sito è stato associato ad un più ampio Tempio della Madre Terra, parte di un complesso di tunnel sotterranei che copre circa 6 chilometri quadrati.
«I popoli antichi che hanno realizzato queste piramidi conoscevano i segreti della frequenza e dell’energia della Terra», spiega il dottor Osmanagich. «Hanno usato queste risorse naturali per sviluppare tecniche di costruzione su scale che non abbiamo mai visto prima sulla Terra».
La datazione di 29 mila anni è stata ottenuta dall’esame al radiocarbonio di un pezzo di materiale organico recuperato nello strato di argilla adiacente alla Piramide del Sole.
Nonostante la lunga campagna di scavi, tra i ricercatori ci sono ancora pareri discordi sulla vera natura delle formazioni bosniache. Alcuni credono che si tratti di formazioni naturali che sorprendentemente hanno la caratteristica forma piramidale. Ma nuovi studi condotti sui materiali potrebbero confermare definitivamente l’origine artificiale delle Piramidi di Visoko.
Secondo quanto riporta Deborah West sul New Era Times, uno studio comparato condotto da cinque istituti separati confermerebbe in maniera pressoché definitiva l’origine artificiale della controverse Piramidi Bosniache, mettendo a tacere i dubbi e le voci scettiche che in questi anni si sono rincorse incessantemente.
Secondo le analisi condotte da alcuni team indipendenti, il materiale di costruzione della Piramide del Sole contiene calcestruzzo di alta qualità.
Tra gli istituti coinvolti nelle analisi risulta anche il Politecnico di Torino con il suo laboratorio di analisi chimica e di rifrattometria, dove sono stati eseguiti una serie di test su alcune delle pietre arenarie e dei blocchi di conglomerato prelevati direttamente dalla piramide bosniaca, dimostrando che i campioni risultano composti da un materiale inerte molto simile a quello che si trovava nell’antico calcestruzzo utilizzato dai romani.
I risultati del politecnico sono stati confermati in maniera indipendente dalle analisi compiute sugli stessi campioni presso l’Università di Zenica, in Bosnia-Erzegovina.
Un’ulteriore conferma all’entusiasmante scoperta arriva dal professor Joseph Davidovits, un celebre scienziato francese, membro dell’Associazione Internazionale degli egittologi, il quale ha eseguito personalmente alcuni test sui campioni prelevati nel sito della piramide.
«Ho eseguito le analisi al microscopio elettronico e posso affermare che la struttura chimica del conglomerato utilizzato è molto antico», scrive Davidovits.
Secondo le sue analisi, il conglomerato risulta essere un cemento composto da calcio e potassio e che, nonostante sia difficile stabilirne con precisione una datazione, non c’è dubbio che si tratti di materiale molto antico, forse più antico della tecnica utilizzata dagli egizi di 3500 anni fa.
Ulteriori prove sull’uso del calcestruzzo per la costruzione delle piramidi arriva dal lavoro del professor Micheal Barsoum, professore presso il Dipartimento di Scienza dei Materiali della Drexel University, e del professor Gilles Hug, dell’Aerospace Research Agency francese, i quali hanno ottenuto la prova scientifica che i materiali che compongono le enigmatiche colline bosniache sono di origine artificiale.
In particolare, questo studio sfata la convinzione che le antiche piramidi del mondo siano state costruite tutte con la tecnica a blocchi di calcare intagliati.
A quanto pare la tecnica del calcestruzzo era già conosciuta dall’umanità in epoca remotissima.

L’enigma delle Piramidi Bosniache

Prima di tutto è opportuno chiarire la questione “piramidi-non piramidi”. Il motivo per cui il termine “piramidi” va preso con le molle dipende dal fatto che, in realtà, non ci troviamo di fronte a costruzioni monumentali paragonabili a quelle dell’antico Egitto o a quelle Maya, quanto piuttosto a strutture naturali, nella fattispecie alcune colline, rimodellate da un’azione artificiale.
Tra i fautori di questa di teoria “manipolativa” (o delle “strutture naturali rimodellate”), troviamo Riccardo Brett, ricercatore formatosi a Ca’ Foscari, ultimo supervisore degli scavi a Visoko per conto della “Bosnian Pyramid of the Sun Foundation” (la Fondazione diretta da Osmanagich, che presiede al controllo dell’intera area archeologica delle Piramidi Bosniache).
E’ possibile visionare un ampio resoconto offerto da Enrico Rizzato, pubblicato dalla rubrica Mistero Bufo del Corriere della Sera, nel quale è contenuta anche un’ampia intervista rilasciata da Riccardo Brett e che si può riassumere nei seguenti punti:
– le “Piramidi Bosniache” esistono realmente, anche se dovremmo più propriamente chiamarle “Colline Bosniache rimodellate artificialmente”;
– sono realizzazioni databili perlomeno al neolitico, forse anche più antiche (questo in base agli ultimi rinvenimenti archeologici);
– successivamente sono state “vissute” ed utilizzate dall’uomo in diversi altri contesti storici (quasi sicuramente in epoca romana e nel periodo medievale), ogni volta con scopi probabilmente differenti;
– all’interno dei “Tunnel di Ravne” sono stati anche scoperti dei muretti a secco che fanno propendere per l’autenticità ed antichità dell’intera struttura;
– almeno una parte di queste strutture (mi riferisco, ad esempio, proprio ai “Tunnel di Ravne”) era libera da detriti ed esplorabile ancora nel XVIII secolo; in particolare, per quel che riguarda i “Tunnel di Ravne”, ne è la prova il reperto costituito da un’antica lampada ad olio del XVIII secolo, ritrovato all’interno dei tunnel stessi, e, di conseguenza, corrisponde a falsità l’affermazione che sia la Fondazione di Osmanagich, attraverso l’opera degli scavatori volontari, a “realizzare” oggigiorno i tunnel, spacciandoli poi furbescamente per strutture antiche;
– alcuni campioni di materiale prelevato dagli scavi sono stati analizzati da un noto esperto internazionale che afferma trattarsi di geopolimero cementizio artificiale;
– alla luce delle ultime scoperte archeologiche effettuate in loco (anche dal Brett), chi insiste nel dire che le “Piramidi Bosniache” e le strutture sotterranee ad esse connesse non esistono, oppure che si tratta solamente di formazioni geologiche naturali è quanto meno in errore o, al peggio, in malafede.
Naturalmente, da quando è stato scoperte nel 2005, il complesso bosniaco delle piramidi è stato oggetto di interesse scientifico da parte di numerosi ricercatori che si sono avvicendati nel corso degli anni.
Tutti i resoconti pubblicati rendono impossibile negare l’autenticità di questa scoperta che potrebbe costringere a riscrivere la storia dell’umanità.
Tra le cause di maggiore interesse da parte degli studiosi ci sono alcuni enigmatici fenomeni energetici che ancora non si riescono a comprendere e che secondo Osmanagich, prima o poi, verranno analizzati scientificamente.
Il team di scienziati che da anni conduce una serie di studi interdisciplinari è particolarmente interessato allo studio dell’enigmatica energia cosmica che sembra emergere dal sito archeologico in Bosnia. Scopo dello studio è capire la grande conoscenza in possesso della cultura antica che ha lasciato alle sue spalle queste incredibili opere.
Ecco alcune caratteristiche rilevate grazie alle misurazioni eseguite dei ricercatori:
– la Piramide del Sole misura 220 metri di altezza, un terzo più alta della Grande Piramide di Giza;
– la datazione al radio carbonio mostra che ci troviamo di fronte ad una struttura antica di almeno 25 mila anni;
– l’esplorazione del labirinto sotterraneo ha rivelato un blocco di ceramiche di 8 tonnellate;
– gli strumenti hanno rivelato un raggio energetico, di natura elettromagnetico, con un raggio di 4,5 metri e una frequenza di 28 kHz che parte dalla cima della Piramide del Sole;
– sempre dalla cima della Piramide, sembra esserci un fascio di ultrasuoni con un raggio di 10 metri e una frequenza di 28-33 kHz.
Le quattro piramidi bosniache risultano allineate ai quattro punti cardinali e orientate tutte verso la stella polare.
«Anche se nel corso degli anni sono state scoperte migliaia di piramidi su tutto il pianeta, nessuna di esse ha la qualità costruttiva e l’antichità di quelle Bosniache», spiega Osmanagich. «Gli studi condotti dall’equipe interdisciplinare mostrano che le piramidi bosniache sono molto più antiche e molto più grandi di quelle conosciute. Se come qualcuno ipotizza, le piramidi sono delle grosse centrali capaci di produrre energia, la comprensione della tecnologia che è alla base del loro funzionamento potrebbe liberare l’umanità della dipendenza dai combustibili fossili e inaugurare una nuova era di prosperità e armonia con la natura».
Inoltre, pare che i test confermino alcuni effetti benefici dal punto di vista medico sulla salute umana, prospettando che la decifrazione della tecnologia delle piramidi bosniache potrebbe avere ricadute benefiche anche sulla cura delle malattie dell’uomo.
Ancora una volta, le piramidi ci lasciano a bocca aperta.

domenica 29 maggio 2016

FRANCIA: ECCO LA PRIMA OPERA ARCHITETTONICA DEI NEANDERTHAL

Quattrocento pezzi di stalagmiti assemblati in mondo da formare due anelli imponenti. È la struttura costruita in una grotta 176 mila anni dai nostri cugini, gli unici allora a popolare l'Europa.

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«Una scoperta molto interessante, che puó farci riconsiderare ciò che sapevamo dei nostri progenitori più antichi».
Francesco D’Errico, archeologo e direttore di ricerca del CNRS francese a Bordeaux, commenta così l’annuncio dato ieri da alcuni suoi colleghi che per anni hanno studiato una misteriosa struttura all’interno di una grotta nella Francia meridionale.
Anelli imponenti, al centro dei quali venivano forse accesi dei fuochi: a costruirli, molto probabilmente, gli uomini di Neanderthal, che erano dunque capaci di realizzare progetti complessi di architettura.
Descritto sulla rivista Nature, lo studio è stato coordinato da Jacques Jaubert, dell’università di Bordeaux.
Scoperti nelle profondità della caverna di Bruniquel, nel sud della Francia nel 1992, questi anelli sono stati studiati solo ora, dimostrando che i Neanderthaliani erano in realtà meno “semplici” di quanto finora pensato.
Gli uomini di Neanderthal vissero in Europa tra i 400mila e i 40 mila anni fa. Fino all’arrivo dall’Africa degli Homo Sapiens, nostri progenitori diretti, furono gli unici esseri umani a popolare il continente. Della loro esistenza e del loro aspetto sappiamo soprattutto grazie ai frammenti di scheletri rinvenuti dai paleontologi.
In Italia uno degli esemplari meglio studiati è l’Uomo di Altamura, un Neanderthal caduto nella grotta di Lamalunga (Bari) e lì rimasto intrappolato fino al suo ritrovamento, venti anni fa, da un gruppo di speleologi.
Ora però gli studiosi della preisotria potrebbero avere a disposizione qualcosa di più per capire come vivevano quei nostri cugini. Gli anelli della grotta di Bruniquel sono composti da circa 400 pezzi di stalagmiti, con dimensioni che vanno dai 2 ai quasi 7 metri, e risalgono a 176 mila anni fa. Il che fa di questa costruzione la più antica finora conosciuta realizzata dall’uomo.
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«La nostra ricerca dimostra che la loro società aveva già degli elementi di modernità che ora possono essere dimostrati e che sono emersi prima del previsto, come l’organizzazione dello spazio, l’uso del fuoco e l’occupazione delle caverne», spiegano gli sicenziati francesi.
La loro presenza, a 366 metri dall’entrata della grotta, dimostra infatti che questi antenati dell’uomo avevano già dominato l’ambiente sotterraneo, un comportamento dell’uomo moderno che potrebbe quindi essere emerso prima di quanto teorizzato.
Inoltre, il fatto che gli anelli siano stati costruiti con pezzi di dimensioni simili indica che la loro costruzione è stata progettata attentamente, anche se la funzione non è del tutto chiara. Le ipotesi formulate vanno dal rifugio al significato simbolico, ma serviranno ulteriori studi per dimostrarle.
Secondo D’Errico, la scoperta è importante anche dal punto di vista metodologico. Si sapeva dal 1992 delle strutture fatte con stalagmiti, ma non si conosceva la data di realizzazione. L’equipe di Jaubert è riuscita a datare la polvere che ha ‘saldato’ tra loro le stalagmiti dopo che erano state deposte. E questo ci permette di attribuire la costruzione a Neanderthal.
Ma non è possibile che, al contrario di quanto ritenuto finora, 175mila anni fa ci fossero in Europa altre specie Homo, magari più evolute? «Tutti gli elementi che abbiamo ce lo fanno escludere» risponde D’Errico. «Forse, se non di Neanderthal potrebbe trattarsi dell’Homo di Denisova, lo stesso delle grotte di Atapuerca, in Spagna».
Ma qual è allora l’importanza dello studio francese? «Dal mio punto di vista», continua D’Errico «non è tanto nel sancire le capacità costruttive dei Neanderthal. Persino gli uccelli, le iene o gli scimpanzé costruiscono nidi, perché non avrebbe dovuto farlo il Neanderthal? In realtà mi incuriosisce tutto ciò che questa scoperta lascia immaginare: perché questi uomini si spingevano fino a trecento metri di profondità? Certo non per il cibo o per stare al sicuro. Era un rituale? E che tipo di utensili avevano? Per illuminare una grotta e lavorare per ore sotto terra non basta un tizzone, ci vogliono torce molto efficienti».


venerdì 27 maggio 2016

LA SCOPERTA: IL PUGNALE DI TUTANKHAMON È REALIZZATO CON MATERIALE ALIENO

Il pugnale del faraone Tutankhamon è realizzato dalla lavorazione di materiale ferroso proveniente da meteoriti.

Uno dei due pugnali seppelliti insieme al Faraone Tutankhamon, oggi custoditi al Museo Egizio del Cairo

Il pugnale del "Faraone Bambino" - così viene chiamato Tutankhamon - è stata realizzato mediante la lavorazione di ferro di origine meteoritica. E' quanto ha scoperto un team internazionale composto da ricercatori provenienti da Università di Pisa, Politecnico di Milano e di Torino, CNR, Università egiziana di Fayoum, Museo Egizio del Cairo, e società XGLab.

Lo studio ha documentato l'origine meteoritica del ferro del pugnale di Tutankhamon

Lo studio, effettuato anche mediante la tecnica della fluorescenza a raggi X, ha documentato che il materiale utilizzato per costruire la lama dell'antico Faraone egizio, risalente al XIV secolo B.C., proviene da meteoriti. La prova starebbe nel fatto che le concentrazioni di nichel e cobalto, che rispettivamente compongono il 10% e lo 0,6% del materiale della lama, oggi custodita nel Museo Egizio del Cairo, è quella tipica delle meteoriti ferrose. I risultati delle analisi sono stati pubblicati sulla rivista "Meteoritics and Planetary Science", che rende nota anche la natura non invasiva degli esami a cui è stato sottoposto il pugnale.

La scoperta pone fine ad un annoso dibattito tra gli esperti

Fin dalla scoperta della tomba del Faraone, avvenuta nella "Valle dei Re" nel 1922, ad opera dell'archeologo inglese Howard Carter e del suo finanziatore, Lord Carnarvon, ebbe inizio il dibattito per stabilire la provenienza dei materiali impiegati per la realizzazione di uno dei due pugnali sepolti insieme al Faraone

Le abilità degli egizi nella lavorazione del ferro

La raffinatezza e la precisione con la quale sono state realizzate le lame, evidenzia come già all'epoca gli egizi avessero sviluppato grandi abilità nella lavorazione manuale del ferro. Il ferro di origine meteoritica era considerato molto pregiato, e veniva utilizzato per la produzione degli oggetti più importanti, come i pugnali del supremo Faraone.

Il mistero della "maledizione di Tutankhamon"

La tomba del Faraone bambino è nota all'opinione pubblica per la "maledizione di Tutankhamon", ovvero la presunta punizione divina riservata a chi ha violato la tomba del Faraone. Si tratterebbe, in realtà, di una trovata pubblicitaria dell'epoca, che ha contribuito moltissimo a rendere noto il Faraone.

giovedì 26 maggio 2016

C’È UNA GRANDE PIRAMIDE SOMMERSA NELLE AZZORRE? UNA SVOLTA NELLA RICERCA DI ATLANTIDE?

La ricerca della leggendaria civiltà atlantidea, scomparsa nella notte dei tempi a causa di un cataclisma globale catastrofico, potrebbe essere ad una svolta. L'emittente televisiva pubblica del Portogallo (RTP) ha diffuso la sorprendente notizia della scoperta di una piramide sottomarina nelle acque delle Isole Azzorre.

piramide azzorre

Le leggende sull’esistenza di una civiltà preistorica avanzata, denominata comunemente Atlantide, sono circolate fin dall’inizio della storia umana.
I ricercatori che si sono avventurati nella ricerca di indizi sulla sua esistenza hanno avuto sempre opinioni divergenti.
Alcuni pensavano che si trovasse al centro dell’Oceano Atlantico, altri in Sud America, altri ancora nell’Oceano Pacifico.
Come ormai è noto, sono stati gli scritti di Platone a suggerire che i costruttori originali delle piramidi sul nostro pianeta fossero gli abitanti di un continente perduto situato ad ovest dello Stretto di Gibilterra, ma i ritrovamenti megalitici in zone come Machu Pichu, Cuzco e Tiahuanaco hanno portato a pensare che gli Atlantidei provenissero dal Sud America.
Ma una scoperta davvero importante potrebbe portare ad una svolta decisiva nella ricerca della civiltà perduta. Un servizio trasmesso dalla televisione pubblica portoghese ha rilevato l’esistenza di una struttura piramidale sul fondo delle acque che circondano le Azzorre, nei pressi del vulcano Dom João de Castro Bank, tra le isole di São Miguel e Terceira.
La struttura è stata identificata dal navigatore Diocleciano Silva, sulla base delle letture batimetriche comparse sugli strumenti durante una navigazione ricreativa. L’autore della scoperta è convinto che la struttura piramidale non sia di origine naturale.
Secondo le misurazioni, la piramide è alta circa 60 metri, con una base di 8 mila metri quadrati (più piccola della Piramide di Cheope, pari a 53 mila metri quadrati). La struttura si trova a circa 40 metri sotto la superficie dell’oceano e risulta essere perfettamente allineata con i quattro punti cardinali, come le Piramidi di Giza.
Tanto è bastato da suscitare l’interesse da parte del governo portoghese il quale ha dichiarato che la questione è già in fase di studio con il supporto della Marina Portoghese.
Luiz Fagundes Duarte, segretario Regionale della Pubblica Istruzione, è prudente: tenuto conto della posizione della struttura, potrebbe trattarsi di una formazione di origine naturale.

Altre piramidi nelle Azzorre

Negli ultimi due anni, gli archeologi dell’Associazione Portoghese per la Ricerca Archeologica (APIA) hanno individuato nuove prove sull’Isola di Pico, confermando l’idea che l’occupazione umana delle Azzorre precede di molte migliaia di anni l’arrivo dei primi portoghesi.
Come riporta il Portuguese American Journal, i ritrovamenti si compongono di una grande varietà di strutture rocciose piramidali, alcune pari a 13 metri di altezza.
Gli archeologi ritengono che le strutture siano state realizzate dagli occupanti ancestrali dell’isola, suggerendo che potrebbe trattarsi di antichi luoghi di culto con scopi rituali funebri. Decine di strutture sono state trovate nella zona Madalena dell’Isola di Pico.
Gli archeologi ritengono che le strutture siano state costruite secondo un orientamento astronomico molto preciso, facendo riferimento ai solstizi d’estate, il che suggerisce che sono state realizzate per uno scopo preciso.
Inoltre, i ricercatori ritengono che le strutture piramidali di Madalena, conosciute dalla popolazione locale con il nome di “maroiços”, siano analoghe a quelle rinvenute in Sicilia, Nord Africa e Isole Canarie.

Azzorre: ciò che resta di Atlantide?

L’arcipelago delle Azzorre è una catena di nove isole vulcaniche divise in tre gruppi principali. Esse si trovano a 1500 chilometri ad ovest di Lisbona. Storicamente, c’è incertezza sulla data della loro scoperta e sul suo autore.
Le nove isole si estendono per più di 600 chilometri nel cuore dell’Oceano Atlantico; la terra più vicina è Madera, a 906 chilometri, mentre il Portogallo si trova a 1400 chilometri, e la Nuova Scozia a 2738 chilometri. Le Azzorre risultano essere le cime di alcune delle montagne più alte del pianeta, se misurate dalla base sul fondo dell’oceano.
La posizione dell’Arcipelago ha alimentato la leggenda che le Azzorre potrebbero essere ciò che rimane del grande continente Atlantideo.
Gli abitanti delle Azzorre raccontano volentieri la leggenda del misterioso continente di Atlantide, sprofondato dopo numerose e violentissime esplosioni, lasciando in eredità le nove isole. Queste leggende sembrano confermare i racconti di Platone contenuti nel Timeo e nel Crizia.
Tuttavia, gli scienziati ritengono che l’arcipelago sia il risultato di reiterate effusioni vulcaniche avvenute nel fondale marino e negano che qui sia mai esistito un continente. Lo stesso nome “Azzorre” sembra essere frutto di un equivoco.
Deriva infatti da “açor”, che in portoghese significa “astore”: gli esploratori riferirono di avere avvistato numerosi stormi di astori intorno ai monti delle isole; in realtà, non si trattava di astori, che qui non ci sono, ma di poiane.
In ogni caso, le Azzorre sono davvero isolate e distanti da tutto, proprio come si immaginava fosse Atlantide. Guardando queste terre incontaminate, ricche di vegetazione e laghi naturali, le leggende che si tramandano sembrano essere realtà.

sabato 21 maggio 2016

LA MISTERIOSA GROTTA DI BLOMBOS E LE PRECOCI CAPACITÀ COGNITIVE DELL’UOMO

Il cammino evolutivo umano è meno lineare di quanto si sia creduto fino ad oggi. Numerose scoperte da parte di paleontologi e archeologi costringono gli evoluzionisti a rivedere alcune delle tappe che, secondo la teoria, hanno portato allo sviluppo della nostra specie.

Caverna di Blombos

Alcune interessanti scoperte sono state effettuate nella Caverna di Blombos, un sito preistorico situato a Cape Agulhas, in Sud Africa, a circa 300 chilometri a est di Città del Capo.
Si tratta di una cavità scavata in una scogliera calcarea che affaccia sull’Oceano Indiano.
Secondo i ricercatori, i nuovi reperti rinvenuti nella caverna gettano nuova luce sulla complessa evoluzione delle capacità cognitive della nostra specie, avvenute, a quanto pare, molto tempo prima di quanto finora teorizzato.
La grotta di Blombos è stata frequentata dagli uomini dell’età della pietra per circa 140 mila anni, in modo discontinuo. La caverna divenne famosa quando nel 1993, il dottor Christopher Henshilwood, del South African Museum, vi scoprì alcuni manufatti in pietra, quali punte simmetriche di lancia, collocabili a circa 20 mila anni fa. Ulteriori scavi successivi, hanno portato alla luce alcuni reperti che hanno stupito i ricercatori.
All’interno della cavità, Henshilwood e il suo team hanno rivenuto alcune conchiglie usate come contenitori per miscelare un colore a base di ocra, databili a circa 100 mila anni fa! Nelle conchiglie è stata trovata una patina di polvere rossa brillante, resti essiccati di una miscela colorata realizzata mescolando ocra rossa, ossa di foca polverizzate, carbone, frammenti di quarzite e un liquido, forse acqua.
Insieme alle conchiglie, i ricercatori hanno trovato anche delle macine, resti di un focolare e delle ossa di animali, probabilmente utilizzate per raccogliere il colore dal contenitore. Secondo quanto scrivono gli autori dell’articolo comparso su Science, la scoperta costringe a rivedere alcune convinzioni espresse nella teoria sull’evoluzione delle capacità cognitive dell’Homo Sapiens.
In primo luogo, i reperti della Caverna di Blombos mostrano che l’uomo era già in grado di un pensiero astratto che gli permettesse di decorare gli oggetti e il suo corpo. Se questa interpretazione offerta dallo studio è corretta, bisognerà prendere atto che i nostri antenati di 100 mila anni fa erano già in possesso di capacità cognitive complesse come la nostra.
“Questa scoperta rappresenta un importante punto di riferimento per l’evoluzione delle capacità cognitive dell’uomo”, spiega Henshilwood. Secondo le attuali teorie, questa capacità non si sarebbero dovute manifestare per altri 40 mila anni.
Ma la meraviglia è stata a scoperta che gli uomini preistorici della Caverna di Blombos erano in possesso di rudimentali conoscenze di chimica. “Sembra sapessero quanto le ossa di foca siano ricche di olio e grasso, componenti fondamentali per ottenere una sostanza simile alle tempere ad olio”, continua Henshilwood. “Sapevano anche che dovevano aggiungere carbone per stabilizzare la miscela”.
Gli ingredienti utilizzati erano pochi, ma tutti avevano una precisa funzione e necessitavano di una precisa lavorazione. Questi ritrovamenti mostrano che l’uomo era già in possesso di avanzate capacità concettuali, grazie alle quali poteva elaborare la combinazione degli ingredienti, la conservazione e l’utilizzo artistico delle miscele: una vera e propria pianificazione a lungo termine.
“In una delle conchiglie”, afferma Henshilwood, “è stata ritrovato un frammento di goethite, un minerale giallastro forse aggiunto per modificare il colore finale”. Come spiega, infine, lo stesso ricercatore, prima di questa scoperta, il più antico laboratorio artistico conosciuto risaliva a circa 60 mila anni fa.

lunedì 9 maggio 2016

Hippies – La storia degli ultimi europei liberi

A distanza di più di sei lustri dal periodo in cui emerse e scomparve la figura dell'hippie, oggi molti credono che su di lui sia stato detto tutto, ma così non è.



In realtà, a quanto mi consta, buona parte di ciò che si è scritto in proposito non lo riguarda. L’hippie, nel suo significato più nobile ed essenziale, non aveva infatti nulla a che vedere con il contestatore di sinistra, studente od operaio, con il reazionario di destra, con l’intellettuale impegnato, con il “drogato” o con il barbone mendicante, e neppure con il presunto artista che, insieme all’acqua sporca dell’ipocrisia culturale dominante, gettava via il bambino della bellezza atemporale.
L’hippie, essendo un uomo del Tao, si muoveva (o, meglio, si muove) fuori dal tempo e da una visione dell’uomo e della vita irriducibilmente fondata sull’ignoranza (avidya). L’illusione della Storia, il moto ondoso dell’apparire e scomparire delle civiltà, la teoria dell’evoluzione, con i suoi derivati, e le varie dottrine evoluzionistiche non gli interessavano; i suoi punti di riferimento fondamentali e fonti di ispirazione erano la Natura e il sapere-saggezza. In questo scorcio di Kali-yuga, egli va pertanto considerato come una testimonianza dell’archetipo dell’uomo irriducibilmente libero (l’Adam Kadmon, l’Uomo universale, il Purusha) o, quantomeno, dell’aspirante alla Liberazione.
La fuga dalle città e dalla vita artificiale moderna
Egli, innanzitutto, rifuggiva le città, considerandole un’espressione della grave malattia nella quale è andata gradatamente cadendo l’umanità; le mura, i grandi agglomerati di case, le strade senza asperità, la ricerca della comodità ad oltranza, un’organizzazione sociale negatrice di ogni dignità e libertà da che cosa nascono, infatti, se non dalla paura della Natura sia nel suo aspetto femminile, che in quello maschile? Nelle città l’individuo, pur essendo circondato da migliaia o milioni di altri suoi simili, vive in una condizione di profondo isolamento ed alienazione che lo impossibilita a comunicare.
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L’uso di piante psicotrope per abbattere le barriere mentali del sistema
Evadere dalla prigione-città non è però facile: per abbattere il muro interno ed esterno in cui il burattino-schiavo dell’Era Oscura si dibatte sono necessarie una grande forza ed una precisa conoscenza sovrasensibile che l’istruzione scolastica e quella religiosa, coadiuvate da un esercito di psichiatri, secondini della mente, hanno vie più tentato di negare e cancellare, soprattutto in Occidente.
Ecco allora apparire provvidenzialmente all’orizzonte, insieme ad altre forme di iniziazione valide ma meno deflagranti e rapide, le medicine estreme delle sostanze psicotrope o “acque corrosive”. Il fatto che siano “estreme” sottolinea subito la loro pericolosità, almeno dal punto di vista dell’identificazione nella soggettività. Esse, se utilizzate in senso liberatorio e sacrale, valgono infatti quali scorciatoie, esplosivi o veleni capaci di abbattere resistenze tenaci, corrodendo una coscienza di sé costipata nello spazio ristrettissimo di una visione di vita, quella moderna occidentale, secondo il cui falso sapere l’uomo si riduce ad essere soltanto un corpo ed una mente dicotomica.
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Quanto sopra non dev’essere interpretato, si badi bene, come un incoraggiamento ad usare in modo superficiale le piante di potere, bensì quale argomentazione a sostegno dell’uso spiritualmente valido che ne fecero gli hippies. Le stesse, infatti, se usate soltanto a fini ludici, vanno né più né meno equiparate alle sigarette, all’alcool, alla televisione, agli psicofarmaci e alle numerose altre “droghe”, più o meno nefaste, spacciate come lecite o illecite, a seconda del tornaconto, nella nostra società.
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Gli hippies comunque non consideravano tutte le sostanze psicotrope valide ai fini della liberazione dall’ignoranza, ma tendevano a prediligere quelle naturali, le stesse usate dai sadhu indiani, con l’esclusione degli oppiacei (in particolare, morfina ed eroina) – che ottundono la coscienza invece di espanderla ed acutizzarla – e in genere di quelle che danno gravi effetti di dipendenza. Tra gli allucinogeni (naturali o sintetici) ebbero grande importanza l’LSD – sostanza semisintetica poiché per produrla è necessario partire sempre dall’alcaloide della segale cornuta –, la datura stramonium o, meglio, inoxia (la varietà più potente che cresce ai tropici) e il fungo psilocybe.

La morfina e l’eroina vennero introdotte negli ambienti dei giovani non omologati dall’establishment con il preciso intento di distruggere e vanificare dall’interno le loro istanze di liberazione. «We can change the world» faceva paura: non si poteva accettare che dal recinto degli schiavi produttori di energia qualcuno fuggisse. Molti caddero nella trappola, ma non tutti. Quei pochi che in India vennero iniziati da autentici Baba all’uso sacrale del chilum si sottrassero all’eccidio. La consapevolezza che il chilum di ganja o l’LSD sono soltanto strumenti, il dito che indica e non la luna indicata, permise a costoro di non affondare nei pantani della dipendenza e di volare leggeri verso il Sole ineffabile.
Gli hippies, ovvero gli ultimi europei liberi

Gli hippies furano gli ultimi occidentali a poter calcare la via dell’Oriente in piena libertà.

Essi amavano sia il viaggio interiore che quello fisico, considerandoli un tutt’uno. Percorsero il lungo tragitto dall’Europa all’India e al Nepal con treni, autobus, automobili o pulmini preparati in modo speciale, o altri mezzi di fortuna, spesso senza denaro e passaporto. I popoli islamici li guardarono con simpatia, intravvedendo in essi consonanze con la follia sufica. L’India del Sanatana-dharma li accettò e Shiva li prese sotto la sua protezione.
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Per quanto mi riguarda, cominciai a “viaggiare” a diciott’anni, nel ’65, allorché, dopo essermi fortunosamente diplomato, me ne andai a Roma in Piazza di Spagna, prima con una vespetta cinquanta e poi in autostop. Colà, i primi “capelloni” italiani cantavano le canzoni dei Rokes, solidarizzavano tra loro, bevevano vino e andavano a dormire a Villa Borghese, senza che Carabinieri o Polizia li disturbassero troppo.
Il mondo Islamico degli anni 70
Insieme a Marina e alla sua bambina di tre anni, partii via terra per l’India. Giunti in Afghanistan, dovemmo però fermarci poiché imperversava l’ennesima guerra fratricida – lascito dei civilissimi inglesi – tra l’India e il Pakistan. L’incontro col mondo islamico fu davvero magico e sorprendente: rendersi conto che esistevano tradizioni e modi di vivere del tutto diversi da quelli occidentali valse quale ulteriore e potente rivelazione. Gli afghani guardavano gli hippies con divertita curiosità e rispetto, ma in loro non albergava alcun senso di inferiorità; quegli uomini e quelle donne (queste ultime ebbi modo di vederle a viso nudo all’interno di alcune case in cui venimmo ospitati) erano manifestamente contenti e fieri della propria tradizione e del proprio stile di vita fermo nel tempo.
Agli ottenebrati che credono nella supremazia assoluta dell’Occidente – prima cristiano e adesso tecnologico e scientifica – sembrerà una cosa assurda, ma per gli hippies era assai più gratificante vivere in mezzo a quella gente semplice e fiera piuttosto che nelle inquinate città dalle quali provenivano. In Afghanistan ci si poteva sedere per terra; si poteva fumare hashish puro in meravigliose pipe ad acqua quanto e dove si voleva, sorseggiando tè verde; quotidianamente si ascoltava e suonava musica per le strade; nel raggio di centinaia di chilometri non si intravedeva la benché minima ombra di fabbriche-prigioni sputaveleni e i mezzi di locomozione continuavano ad essere soprattutto cavalli e cammelli; i cibi erano squisiti ed assolutamente naturali; la vita costava pochissimo; il senso del sacro era vivo e palpabile e non di rado capitava di incontrare occhi accesi da una luce particolare.
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In sostanza, in quel Paese, che la propaganda anglo-americana ci ha di recente dipinto quale emblema delle peggiori barbarie, noi ci sentivamo liberi.
Gli hippies sfidano il sistema rifiutando passaporto e denaro
Fu quindi nell’ottica di un superamento della dicotomia esterno-interno che il passaporto e il denaro – i quali, pur essendo in sé e per sé solo carta straccia o semplici strumenti per nutrirsi e viaggiare, simboleggiavano l’attaccamento ad una identità artificiosa – vennero rifiutati. Basta un attimo di riflessione impersonale per realizzare, almeno intellettualmente, che, prima di essere un nome e cognome (l’onda), siamo l’Io Sono Vita onnipervadente (l’oceano), in sanscrito l’Atman. Non si semina denaro per produrre grano, riso o frutta, e non abbiamo chiesto noi di vivere e di essere quello che siamo; perciò, se esiste uno stomaco preposto a precise funzioni, esisterà necessariamente un cibo adatto a lui.
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Prima di cacciare o di faticare, coltivando la terra, l’uomo si sostentava raccogliendo quello che la Natura gli offriva. Il concetto di lavorare per vivere è dunque assurdo e sbagliato e contrassegna l’Era Oscura nella quale stiamo annaspando. Ne consegue che l’hippie, rigettando passaporto, denaro e lavoro, aspirava, in pieno Kali-yuga, a vivere nel Satya-yuga, l’Era della Verità e della spontaneità.

Parrà strano e persino crudele, ma il mio Maestro mi insegnò che l’attuale genere umano si divide sinteticamente in due categorie: quelli che, essendo soggetti all’ignoranza principiale (avidya), pagano la vita, e quelli che, essendosene liberati coll’abbandonarsi a Shiva – la Realtà indescrivibile e intelligente che si prende cura di se stessa -, ottengono ricchezza e beatitudine senza compiere il minimo sforzo. I sadhu vanno però distinti dai mendicanti e infatti, nell’India tradizionale, offrire loro cibo costituisce un privilegio e fonte di meriti spirituali, non un’elemosina.
La sacra meta degli hippies: l’India
La Verità è semplice ed accessibile a chiunque voglia fermarsi un attimo a considerare la realtà con la mente sgombra da pregiudizi ereditati per karma o assorbiti dall’ambiente. Ed essa è stata custodita sino a non molto tempo fa in India, senza veli. Ecco perché l’hippie riteneva che la mèta per eccellenza del suo peregrinare fosse quella terra.
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Nel mondo islamico o cristiano la Conoscenza non-duale si è sempre dovuta nascondere, pena la morte o l’anatema, ma nell’India eterna circola libera per le strade. Purtroppo non si può dire altrettanto dell’India occidentalizzata, dove l’ipocrisia religiosa, l’immedesimazione nell’apparenza, il miraggio del benessere tecnologico e la parodia della democrazia sono in fortissimo aumento.
Il cancro della cultura occidentale infetta l’Oriente
Ricordo bene come la sera di Natale del ’72, a New Delhi, un folto gruppo di indostani idolatri del mito occidentale, in blue jeans e magliette, irruppe ad Hannuman Park, dove stazionava una colonia di hippies insieme a qualche sadhu, per bastonare, distruggere e incendiare. Io stesso, avendo tentato di recuperare il sacco a pelo che, dopo otto mesi trascorsi senza neppure una coperta, un amico mi aveva regalato il giorno prima, ricevetti tre colpi violentissimi.
Agli occhi di quei fanatici noi rappresentavamo la mano che strappava il velo delle loro illusioni; la nostra sola presenza diceva loro:
Vedete, pur provenendo da quel ricco e progredito occidente al cui stile di vita agognate, noi siamo tornati nella vostra terra a piedi nudi, a torso nudo, senza denaro, per attingere alla sapienza dei sadhu e delle selve che voi stolidamente rifiutate; sappiatelo: la civiltà occidentale moderna non è in grado di offrire né conoscenza, né felicità“.

La vera origine degli eco-villaggi
Nella loro intensa aspirazione ad evadere dagli schemi ipocriti che la nostra società pretende di imporre urbi et orbi, gli hippies intuirono l’importanza di rimparare a vivere insieme secondo norme adatte a favorire la realizzazione dell’uomo, sia nel suo aspetto universale, dharma, che individuale, svadharma, e non di inibirla, producendo schiavi ed eunuchi dello Spirito.
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Fu così che sorsero le prime comunità. I problemi da superare erano invero enormi ed essendo noi cresciuti “in quella prigione dove ti hanno insegnato ad amare poche persone alla volta”. A posteriori, si può ben dire che, dopo alcuni anni di intense sperimentazioni, gli ostacoli non vennero superati, almeno all’apparenza, e che il fenomeno delle comunità si esaurì.

C’è però una prospettiva più profonda, secondo la quale tali avventure prepararono la nascita, agli inizi degli anni Ottanta, di comunità magari piccolissime e invisibili, ma capaci di reggere alla prova del tempo e delle difficoltà sopra accennate. Dai tentativi comunitari degli anni Settanta, germinarono pure i Rainbow Gathering e l’idea degli ecovillaggi che oggi affascina tanti “alternativi”, pur stentando a decollare.
Soltanto quando avremo compreso che l’Io Sono che ci sostanzia è lo stesso che anima la nuvola, la formica, l’ago di pino, il nostro miglior amico e parimenti il nostro peggior nemico ci sarà possibile dire: “Io sono, sento, voglio e desidero” e nessuno nell’intero trimundio potrà contestarcelo.
L’immersione amorevole nella natura, accendendo fuochi, cucinando chapati o altri cibi semplici e buonissimi che davano la sensazione di essere ritornati all’alba dei tempi; la musica che, sgorgando improvvisa da chitarre, flauti e tamburi, raggiungeva di frequente apici di grande armonia e univa gli animi più di tante parole; lo sporadico emergere di una sessualità liberata dalla paura, ma non per questo volgare; lo scambio di esperienze interiori, di sogni e di riflessioni utili alla conoscenza di sé; l’emergere di una sintonia immediata con persone mai incontrate prima, quasi si appartenesse ad una medesima corrente sgorgante da una Fonte invisibile.
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L’aspirazione ad una sessualità affrancata dagli schemi in cui l’occidente cristiano l’aveva impastoiata fu un’ulteriore elemento caratterizzante gli hippies. Alcuni giovani intuivano che l’energia sessuale non poteva essere relegata negli ambiti angusti della sola riproduzione o dello sfogo istintuale.

Il declino della cultura hippie e la fine degli ultimi europei liberi
Nel ’76/’77 l’energia che aveva alimentato l’insorgere della sperimentazione comunitaria andava però spegnendosi, soffocata dai venti contrari di una società sempre più alienata e dallo psichismo negativo irrisolto di quelli che avevano tentato il cambiamento.
Fu in quegli anni che tanti ritornarono tra i ranghi dell’establishment; altri decisero, pur non avendo realizzato alcuna autentica conoscenza, di improvvisarsi “maestri”, insegnando nuove mirabolanti tecniche per viaggiare in astrale, far l’amore per sette ore, nutrirsi di luce ed ascendere, ricordare le vite passate, scoprire il bambino interiore, illuminarsi in tre giorni, et similia, aprendo così la strada a quello che di lì a poco sarebbe diventato il fiorente mercato new age; non pochi, purtroppo, finirono nelle mani degli psichiatri, subendo terapie a base di electroshok, serenase e altre schifezze chimiche, dalle quali è quasi impossibile ritornare alla salute; una buona parte morì di eroina o cominciò il calvario tra il buco e la comunità di recupero (recupero, ovviamente, al carcere dal quale aveva tentato di evadere per una via sbagliata).
Verso la fine degli anni Settanta sembrava che nessuno credesse più in nulla e così ripresero il sopravvento quelli che parlavano di marijuana e fucile, di rivoluzione fatta sulla pelle degli altri, di matrimoni tra omosessuali o lesbiche, e altre stupidaggini simili.
Gli orrori della psichiatria e l’invisibile violenza della società
Per quanto mi riguarda, decisi di ritornare dai miei genitori, non per arrendermi all’imbecillità elevata a dogma, ma per verificare in modo decisivo se l’insegnamento ricevuto in India tra i sadhu e nel tempio della natura selvaggia potesse davvero essere realizzato dappertutto, senza l’aiuto di nessuna sostanza psicotropa e senza che fosse necessario identificarsi in questa o quella etichetta spirituale o religiosa e politica: destra, sinistra, estreme destra e sinistra, centro, trasversale, ecc.
Quando avevo tentato lo stesso esperimento, un triennio prima, a ventisette anni, tra un viaggio in India e l’altro, ero stato ricoverato in modo coatto all’ospedale psichiatrico di Brescia. Mi si imputava di essere uno squilibrato perché meditavo, non volevo lavorare, leggevo e disegnavo, mi prendevo cura dell’orto, cucinavo pane, riso ed erbe selvatiche, amavo la solitudine, aborrivo televisione e giornali e osavo tacciare i miei parenti cattolici di crassa ipocrisia: “somiglio un incapace / per i veri incapaci”.
Un luminare della psichiatria sentenziò, dopo avermi osservato dal buco della serratura, mentre, seduto in padmasana, assaporavo l’eterno Sivo’ham (“Sono Shiva”) del respiro: “sta diventando catatonico”, e tutti gli credettero. Anche quella fu una lezione assai istruttiva circa il volto nascosto della nostra società, e mi diede l’opportunità di verificare quanto salda fosse la mia convinzione di essere sano; se avessi nutrito il più piccolo dubbio su me stesso, non sarei qui a scrivere.
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In un tale inferno, qualsiasi cosa si dicesse, anche la più scontata e normale, diventava prova di squilibrio mentale; ed era atroce vedere le facce deformate dall’ira o dall’odio di medici, infermieri, parenti e pseudoamici dichiarare a gran voce di volere il mio bene mentre mi torturavano e mi privavano delle più elementari libertà e dignità. Per “fortuna”, tuttavia, dopo un mese venni “cacciato” dall’ospedale perché mi si attribuiva la colpa di esercitare un pessimo influsso sugli altri malati: alcuni intorno a me iniziavano a rendersi conto che le paranoie mentali sono solo illusioni e che in noi c’è una presenza-testimone capace di osservarle, trasformando l’inferno in paradiso.

Ritorno a casa
Tornare a casa a trent’anni fu dunque una prova durissima e indispensabile. Perdonare i miei genitori mi aiutò a purificare la coscienza dal rancore che avevo maturato nei loro confronti. Per alcuni mesi mi parve di vivere immerso nella vacuità e nel grigiore più estremi, ma, a poco a poco, le cose migliorarono, sino a che imparai a sentirmi libero, realizzando almeno in nuce la saggezza che invita ad “essere nel mondo ma non del mondo”.
Per verificare la mia libertà scelsi persino di lavorare (preferibilmente a mezza giornata o per quattro giorni alla settimana): feci l’impiegato, il professore, l’antennista, il vendemmiatore, il venditore di libri e il bidello. I lavori manuali all’aperto, soprattutto se in nero, erano naturalmente i miei preferiti, poiché mi lasciavano mentalmente libero con il cielo sopra il capo e non mi incatenavano alla macchina tritacarne della burocrazia previdenziale.
Tra i miei amici ero diventato “famoso” perché riuscivo a vivere con diecimila lire al mese; il resto dei miei magri guadagni li spendevo in libri, dischi ed incenso. Molti mi domandavano se non avessi paura della malattia, della vecchiaia o della solitudine. Nei lunghi periodi trascorsi nelle comunità sopra accennate e sulla strada avevo conosciuto, dentro e fuori di me, le molte miserie che impediscono agli uomini di vivere insieme in modo amorevole, gioioso e creativo. Ma non avevo perso la speranza che una comunità libera da immedesimazioni ideologiche, religiose o neospiritualiste fosse possibile.
In un mondo dedito a perseguire l’apparenza, rivestendola di parole altisonanti quali “sviluppo” e “progresso”, desidero concludere queste modeste riflessioni con alcuni versi tratti dal Tao Te Ching, nei quali, in modo succinto, viene riassunto un immenso sapere:
Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno.

Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno.
Diminuendo sempre di più si arriva al Non-agire.
Non agendo, non esiste niente che non si faccia

Giuseppe Gorlani


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