venerdì 3 novembre 2017

SCOPERTA UNA STANZA SEGRETA NELLA PIRAMIDE DI KEOPE

La piramide di Cheope non smette di stupire: al suo interno è stata individuata una nuova misteriosa cavità, lunga almeno 30 metri, posta al di sopra della Grande Galleria. Lo annunciano su Nature i ricercatori del progetto internazionale ScanPyramids, che da due anni stanno scrutando nel 'cuore' della più grande e antica delle tre piramidi della piana di Giza, vicino il Cairo, usando tecniche di rilevamento non invasive basate sulla fisica delle particelle.
Lo studio ha impiegato una tecnica in particolare, chiamata muografia, che permette di 'leggere' il cammino di particelle subatomiche (muoni) prodotte dall'interazione dei raggi cosmici provenienti dallo spazio con l'atmosfera terrestre. I muoni seguono traiettorie differenti quando si muovono nell'aria rispetto a quando attraversano le pietre, e dunque sono in grado di svelare la presenza di cavità. Nella grande piramide di Cheope questo è accaduto già due volte. La rilevazione di una prima anomalia aveva portato ad annunciare nell'ottobre 2016 la scoperta di un corridoio localizzato vicino alla parete nord. Ora una seconda anomalia, individuata nel marzo 2016 e studiata per un anno con diversi tipi di muografia, ha permesso di individuare questa nuova cavità: simile per dimensioni alla Grande Galleria, potrebbe essere composta da una o più strutture e potrebbe avere una disposizione orizzontale o leggermente inclinata. La sua funzione resta ancora un mistero.
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Uno dei leader della squadra, Hany Helal dell'Università del Cairo, crede che il vuoto è troppo grande per avere uno scopo di alleviare le pressioni, ma concede che gli esperti si discuteranno.
"Quello che facciamo sta cercando di capire la struttura interna delle piramidi e come questa piramide è stata costruita", ha detto ai giornalisti.
"I famosi egittologi, gli archeologi e gli architetti hanno delle ipotesi, e ciò che stiamo facendo è dare loro dei dati: è loro che devono dirci se questo è previsto o no".
Gran parte dell'incertezza scenderà verso i dati piuttosto imprecisi ottenuti dalla muografia.
Questa tecnica non invasiva è stata sviluppata negli ultimi 50 anni per sondare gli interni di fenomeni così diversi come i vulcani e i ghiacciai. È stato addirittura utilizzato per indagare i reattori nucleari falliti a Fukushima.
Muografia fa uso della doccia di particelle ad alta energia che cadono sulla superficie terrestre dallo spazio.
Quando i raggi cosmici super-veloci si scontrano con le molecole d'aria, producono una serie di particelle "figlia", tra cui muoni.
Questi si muovono anche vicino alla velocità della luce e interagiscono debolmente con la materia. Quindi, quando raggiungono la superficie, penetrano profondamente nella roccia.
Ma alcune delle particelle saranno assorbite e deviate dagli atomi dei minerali della roccia, e se i rivelatori muon sono posti sotto una regione di interesse, si può ottenere un'immagine di anomalie di densità.

lunedì 18 settembre 2017

Il disco nel lago di Vostok: dopo trent’anni il mistero è ancora fitto

Trent’anni e venticinque milioni di anni. Queste sono le tappe di quello che, probabilmente, è oggi il più affascinante mistero che riguarda lo studio dei fondali inesplorati.

Il lago di Vostok, in Antartide, fu scoperto per la prima volta da un geografo russo, Andreji Kapica nel 1959 e poi, per la prima volta, oggetto di studi e carotaggi, a partire dai primi anni novanta.

Si tratta di un lago sub-glaciale, individuato a circa tremilasettecento metri di profondità rispetto alla superficie del polo sud, in una zona dell’Antartide orientale ed è parte di una serie di settanta laghi sub-glaciali. I dati che riguardano questo bacino sotterraneo indicano una lunghezza di 25° chilometri, un’ampiezza oscillante tra i quaranta e i cinquanta chilometri e una profondità rispetto alla superficie oscillante tra i tremilasettecento e i quattromila metri. Il dato più importante relativo alle caratteristiche geotermiche del lago è dato dal fatto che la sua temperatura media sarebbe di meno tre gradi, dunque superiore, a quella profondità, alla temperatura di fusione del ghiaccio. Inoltre, secondo gli studi sin qui condotti, il fondale del lago sarebbe localizzato in una zona in cui la crosta terrestre potrebbe essere più sottile e, dunque, sarebbe possibile ipotizzare la presenza di temperature molto più elevate, attorno ai trenta gradi.
Sino a pochi anni fa, dunque, era solo ipotizzabile che sotto i ghiacci dell’Antartide fosse presente una sorta di ecosistema puro, incontaminato, risalente a circa venticinque milioni di anni fa. Presenza di acqua, temperature miti, sostanziale isolamento del bacino lacustre, infatti, promettevano, con un dato margine di certezza, di sostenere la teoria di una zona primitiva incontaminata in cui forme di vita sconosciute potessero vivere indisturbate. Nel febbraio del 2012, poi, l’istituto russo di ricerca sull’Antartide conferma la notizia che una equipe di studiosi di pari nazionalità ha “bucato” la calotta di ghiaccio raggiungendo la profondità di 3776 metri trovandosi, dunque, nella possibilità di sondare la “bolla” di acqua e aria presente nel sottosuolo.
Occorrono ancora alcuni mesi e, nell’ottobre dello stesso anno, un “incidente” durante le perforazioni consente l’incredibile scoperta: un flusso di cherosene, risalito in superficie durante una trivellazione, per via della differenza di pressione, e immediatamente ricongelato in superficie, porta con sé dei batteri. Forme di vita, dunque. Probabilmente sconosciute. I batteri vengono poi analizzati e si scopre che essi hanno un DNA sconosciuto all’ottantasei per cento (i protocolli scientifici stabiliscono che, affinché si parli di vita “aliena”, nel senso di specie vivente non nota, occorre che lo scarto sia almeno pari al novanta per cento).
Appare subito evidente l’enormità della scoperta, non tanto per lo scarto differenziale tra ceppi genetici conosciuti e ignoti, quanto piuttosto perché il ritrovamento conferma che c’è un ecosistema o, quanto meno, che in quel lago la vita esiste. E quella vita, se tutte le variabili sin qui ipotizzate restano valide, risale a venticinque milioni di anni fa. Tutto questo potrebbe già essere sufficiente per confezionare la sceneggiatura di un romanzo, o la trama di una serie tv tra quelle oggi più in voga. Eppure, si tratta solo di una parte delle numerose coincidenze che riguardano questa zona del globo terrestre.
Ecco gli altri ingredienti che, da trent’anni, rimangono inspiegabili. Le stesse attività di ricognizione e studio del lago confermano che, a sudovest del lago, insiste una attività magnetica inspiegabile che condiziona i risultati ottenuti attraverso la strumentazione scientifica. Il magnetismo terrestre sarebbe disturbato da onde magnetiche di origine ignota. Si tratta di una alterazione di circa 1000 nanotesla. Non basta. In quella stessa parte del lago, in profondità, appare ormai evidente che “qualcosa” sia deposto sul fondale. Qualcosa dalle dimensioni troppo regolari per poter essere una struttura naturale: dunque, un artefatto. Un oggetto circolare o cilindrico e, in considerazione dello sbalzo magnetico rilevato dagli strumenti, probabilmente di composizione metallica. Meno certe le notizie riguardanti il diametro di questa formazione metallica: si parla addirittura di cento chilometri.

Non basta. Sempre nel 2012, il canale tv Fox annuncia che una intera spedizione scientifica è scomparsa nella zona di perforazione della calotta antartica, per poi riapparire magicamente dal nulla. Ovviamente, a seguito di ciò, le notizie si fanno sempre più scarne e la cosa passa sottotraccia. Ma non basta ancora. Sempre nel 2012 due donne australiane attraversano il continente antartico sugli sci; una volta giunte sono state prelevate con la forza di una squadra americana e messe in isolamento in un luogo non precisato. Altro non è stato detto e da allora non si è saputo che fine abbiano fatto le due malcapitate. L’unica cosa certa è che la loro scomparsa cela un mistero collegato con l’ultimo collegamento radio e la base di Casey, stazione australiana, nella quale affermavano che “avevano visto qualcosa di cui volevano assolutamente riferire, ma di cui non osavano parlare per via radio per timore di essere captate”. È servito a poco, perché sono state intercettate e isolate rendendo ancora più fitto il mistero. Cosa hanno visto le due donne che non dovevano vedere? Basta così?
Non basta affatto. Nella stessa zona, nel giugno 1934, nel corso della seconda spedizione a lui assegnata, Richard Evelyn Byrd – Esploratore polare e aviatore statunitense (Winchester, Virginia, 1888 – Boston 1957) era rimasto isolato a circa 125 miglia dal campo base. Altri membri della spedizione dovevano spingersi in suo soccorso, ma a 50 miglia dalla partenza il trattore sul quale viaggiavano si era rotto. Un secondo tentativo si era risolto in un altro fallimento a 30 miglia dalla base. Il terzo finalmente aveva avuto successo, ma Byrd era stato trovato in condizioni critiche, dopo aver resistito circa tre settimane. In un suo diario redatto al termine di questa infernale campagna polare, l’ammiraglio, da tutti conosciuto come persona pragmatica e assolutamente affidabile, raccontò di aver raggiunto il sottosuolo del continente antartico, di avervi trovato un reticolato di caverne e, al loro interno, una civiltà umanoide con cui aveva interagito sino alla data del suo ritrovamento.
Caverne abitate. E, naturalmente, non basta. Alcuni quotidiani russi, proprio in occasione delle trivellazioni operate sul fondale del lago, hanno rispolverato una vecchia fantastoria. Infatti, assieme alle teorie sulle possibili scoperte di organismi mai visti, riaffiora anche la storia dei resti di Hitler, che potrebbero essere stati trasportati in Antartide alla fine della Seconda guerra mondiale. Più che resti, campioni di dna, con l’obiettivo di clonare il Führer ed Eva Braun, la compagna morta con lui. Nel 1943, peraltro, l’Ammiraglio Karl Doenitz si vantava del fatto che una flotta di sottomarini tedeschi avesse raggiunto l’Antartide e lì avesse lavorato duramente per allestire «una fortezza inespugnabile per il Führer all’altro capo del mondo. Di concreto, a suffragio, c’è davvero poco. Spulciando, infatti, gli archivi navali tedeschi, emersi a seguito della caduta del Terzo Reich, parrebbe che, nel 1945, il sottomarino U-530 arrivò effettivamente al Polo Sud. È evidente la differenza che esiste tra “un sottomarino” e una intera flotta di sommergibili. Comunque, i membri dell’equipaggio avrebbero costruito una grotta di ghiaccio, utilizzata come magazzino di fortuna – probabilmente anche temporaneo – con «reliquie del Terzo Reich».
E, naturalmente, non potevano mancare le precipitazioni di meteoriti, ulteriore tassello per introdurre il tema della panspermia, ossia l’innesco della vita, sul pianeta terra, a opera di DNA interstellare precipitato nelle feconde acque terrestri assieme alle meteore. Alcuni di questi meteoriti, infatti, sono stati rinvenuti nelle profondità antartiche. Ad attrarre in modo particolare gli studiosi sarebbe uno dei tre meteoriti antartici, “Nakhla”, conservato da circa 100 anni nel Museo di Storia Naturale di Londra.
Mescolando tutti gli ingredienti di questa gustosa ricetta è almeno possibile trarre una conclusione: finché non si farà chiarezza sul “misterioso” oggetto discoidale deposto sul fondale del lago di Vostok tutte le speculazioni più azzardate continueranno a proliferare, soprattutto se, ad alimentarle, contribuiscono fatti come quello di seguito riassunto.
Tempo fa, la portavoce della NASA, Debra Shingteller, nel corso di una conferenza stampa, ha alluso a «questioni di sicurezza nazionale» che hanno consentito all’ente aerospaziale di assumere il controllo di quello che era stato un tentativo internazionale di esplorare un vasto lago sotto il ghiaccio nei pressi della stazione di ricerca russa Vostok. La signora Shingteller pare sia stata immediatamente allontanata dal podio, lasciando a un’assistente il compito di sostituire le inquietanti dichiarazioni con un più rassicurante teorema: «il progetto è stato bloccato a causa di problemi di natura ambientale». Comunque, dopo la conferenza stampa, pare che la signora Shingteller non abbia risposto a ripetuti tentativi di contatto.
Vincenzo Di Pietro

martedì 15 agosto 2017

Anatolij Fomenko – La storia è tutta un inganno?

Se l’ipotesi di Fomenko è che la storia descritta negli annali antichi giunti sino a noi inizi solo a partire dal X secolo e che nulla o ben poco sappiamo di quanto è avvenuto prima, e che la storia attendibile comincia solo dal XVII secolo, perchè anche la storia del XI/XVI necessita di molte correzioni, interessante è vedere le ipotesi talvolta fantasiose che sono nate a partire da quella che è chiamata la Nuova Cronologia.

Se l’ipotesi di Fomenko è che la storia descritta negli annali antichi giunti sino a noi inizi solo a partire dal X secolo e che nulla o ben poco sappiamo di quanto è avvenuto prima, e che la storia attendibile comincia solo dal XVII secolo, perchè anche la storia del XI/XVI necessita di molte correzioni, interessante è vedere le ipotesi talvolta fantasiose che sono nate a partire da quella che è chiamata la Nuova Cronologia.

Ma andiamo con ordine. La prima cosa da sapere è che la cronologia della storia antica e medioevale nella forma in cui ci è pervenuta è stata creata da due studiosi del XVI/XVII secolo: Giuseppe Scaligero, teologo, e Dionigi Petavius, un gesuita anch’egli teologo.
Molte delle date sono riprese, dichiarano i due cronologisti, dalla tradizione ecclesiastica. In particolare il loro riferimento è Eusebio Panfilo del IV secolo e il beato Girolamo. Peccato che di Eusebio vi sia solo una libera traduzione in latino dello stesso Girolamo, dichiara Fomenko. Alcune incongruenze sono state ampiamente documentate: ad esempio una sfasatura di oltre 300 anni tra Alessandro il Macedone e i Sassanidi. A difesa di Fomenko c’è uno scritto del grande Isaac Newton, A short chronicle from the first Memory of Things in Europe to the conquest of Persia by Alexander the Great, dove Newton arriva alla conclusione che una parte della storia dell’Antica Grecia viene anticipata di circa 300 anni e l’antica cronologia egiziana è invece spostata di circa 1800 anni.
Nulla di drammatico se si pensa che nel Vecchio Testamento i patriarchi avevano un periodo di vita alquanto strano secondo i nostri canoni odierni: Matusalemme morì a 969 anni, Noè a 950 e lo stesso vale per gli altri personaggi, salvo il povero Abramo che morì a soli 150 anni. Il tempo doveva essere una variabile alquanto elastica per gli antichi. Anche il tedesco Mommsen, famoso storico, segnala nei suoi studi uno scompenso di almeno 100 anni nella storia di Roma ai tempi dei sette re…
D’altronde la storia tradizionale romana è giunta sino a noi prevalentemente tramite la Storia di Tito Livio. Ebbene, dichiara Fomenko, dei suoi 144 libri ne sono conosciuti solo 35 e la prima pubblicazione della sua opera risale al 1469.
La Storia di Erodoto sull’Egitto contiene errori clamorosi e Fomenko calcola una sfasatura temporale di almeno 1200 anni. Sembra che la celebre storia antica di Cornelio Tacito sia invece penna dell’umanista Poggio Bracciolini (a detta degli storici Hochart e Ross in una loro ricerca pubblicata) e fu lo stesso Poggio a scoprire le opere di Quintiliano, Valerio Flacco e altri, senza che mai siano state rivelate le vicende dei ritrovamenti.
Anche per il pensiero greco vi è il dubbio che la maggior parte delle scoperte di manoscritti sia coevo all’arrivo in Italia dei famosi umanisti bizantini Crisolora, Pletone e Bessarione. Quindi, insinua il dubbio il Fomenko, il nostro sapere sul mondo greco è costituito da elenchi bizantini preparati 500/1500 anni dopo la morte degli autori.
Anche nell’esemplare più recente de La guerra di Tucidide il Codex Laurentinianum è fatto risalire al X secolo. All’epoca di Tucidide, commenta Fomenko, in Mesopotamia si scriveva incidendo tavolette di argilla e i Greci non conoscevano ancora la carta.
E qui Fomenko lancia una prima ipotesi clamorosa: l’antico Platone, ma anche il famoso neoplatonico romano Plotino, non sono altro che la stessa persona, e cioè un Pletone del XV secolo, e con lui la comparsa degli scritti storici dei primi due autori. Il nostro autore documenta anche la badda credibilità del metodo di datazione del radiocarbonio applicata a testimonianze recenti.
In particolare Mikahil Zadornov dallo schermo televisivo del canale Rem sta tenedo tutta la Russia incollata alla tv su presunte rivelazioni. Mi ha affascinato una puntata sull’origine slava dei veneti. Il nome “veneti” o “venetici” ricorre frequentemente nelle fonti classiche. Erodoto li ricorda come tribù illirica, Cesare narra di aver sottomesso i Veneti dell’Armorica (Bretagna), Plinio il vecchio localizza i Venedi lungo la Vistola e infine Venetulani sono un popolo laziale citato da Plinio il Vecchio.
Facile fare confusione: l’etnonimo ha una radice indoeuropea molto diffusa “wen”, cioè amare. Vero che nei villaggi terramaricoli sono state rintracciate pietre colorate in pasta vitrea provenienti dal Caucaso, vero che le situle venete sono molto simili ai manufatti centroeuropei, vero il primato veneto del cavallo, ma si potrebbe sostenere che questi fenomeni siano frutto di scambi commerciali fra i popoli.Eppure lo studioso Lawrence Sudbury sostiene chiaramente che il primo movimento migratorio dalle paludi del Prip’at (odierna Polonia), luogo d’origine degli slavi (Francesco Villar Gli indoeuropei e l’origine dell’Europa, edizione Il Mulino), avvenne in un periodo di crisi alimentare nel I millennio a.C. e portò gli slavi a una lunga marcia migratoria verso il sud finendo per stanziarsi proprio in Veneto. Qui si fuse in un paio di secoli con la popolazione locale.
Anche Wikipedia accoglie questa teoria e cita una probabile corrente migratoria intorno al XV secolo a.C. Gli estensori della Nuova Cronologia arrivarono a sostenere che la scrittura protoveneta è decifrabile con il cirillico come avrebbe fatto già nel 1825 a Varsavia il filologo italiano Sebastiano Ciampi, e propongono una lettura delle iscrizioni esposte nel Museo di Quarto d’Altino e, fatto ancora più clamoroso e forse provocatorio, che i pali su cui è stata fondata la prima Venezia provengono da larici siberiani il cui alto contenuto di ferro permette una “pietrificazione” del tronco in acqua.
A questo punto inizio a preoccuparmi per l’amico Oliviero Toscani. Il protettore di tutti gli slavi. Vladimir Putin è sicuramente più temibile della Liga Veneta.
Mikhail Nikolayevich Zadornov è un brillante scrittore russo, laureatosi in ingegneria all’istituto dell’Aviazione di Mosca ma da sempre dedicato alla scrittura, soprattutto satirica, e alla Tv. Suo tema preferito è la storia russa. Fautore delle ipotesi del linguista Valery Chudinov che sostiene che il russo nasca dal sanscrito vedico e dall’etrusco.

                                                                                                                          Loris Casadei


sabato 10 giugno 2017

Mohenjo Daro: "La collina dei morti".

Mohenjo Daro è un sito archeologico che rappresenta tuttora un appassionante interrogativo, antica sede di una civiltà, di cui si ignorano le cause della repentina scomparsa, che adottò una scrittura di tipo pittografico dal significato ancora sconosciuto e dove si indossavano abiti di cotone.(1)
Zona archeologica vista dall’aereo.
Mohenjo Daro, luogo dove non ci sono tombe, è chiamato la Collina dei Morti.

È il luogo degli scheletri "estremamente radioattivi" (2). Scheletri, con tracce di carbonizzazione e calcinazione, oramai scomparsi, che ai ricercatori hanno testimoniato decessi istantanei e violenti.


Resti di uomini, donne e bambini, e non di guerrieri morti in battaglia. Non si sono ritrovate armi, e nessun resto umano porta ferite prodotte da armi da taglio o da guerra.


Le posizioni e i luoghi dove sono state rinvenute le ossa indicano decessi istantanei, avvenuti senza avere il tempo materiale di rendersi conto di ciò che stava accadendo; le persone sono state colte durante lo svolgimento delle abituali azioni giornaliere. Sono passate dal sonno alla morte, insieme a decine di elefanti, buoi, cani, cavalli, capre e cervi.


La città è tornata alla luce nel 1921, quando l'archeologo Daya Harappa, dal quale prese il nome la civiltà scoperta, ebbe l'incarico di recuperare le rovine di un tempio buddista situato su di una isoletta in mezzo all'Indo.


In precedenza nel 1856, John e William Brunton, incaricati di costruire un tratto di ferrovia, segnalarono che in zona si trovavano rovine dalle quali furono prelevati numerosi mattoni per costruire una massicciata ferroviaria.

Gli scavi, proseguiti dal governo Pakistano, hanno restituito ben sette città, una sopra all'altra, e altre se ne ritroverebbe se continuassero gli scavi al di sotto del livello del fiume.

Sette città che gemellano questa collina con quella di Troia.


Mohenjo Daro con la sua piscina coperta di dodici metri, priva di templi e di una reggia, caratteristiche di ogni città antica; ma con strade larghe anche dieci metri e palazzi, costruiti in mattoni del tutto simili ai nostri, alti fino a tre piani, provvisti di acqua corrente, servizi igienici, tubazioni, cloache per i rifiuti e l'acqua piovana. In altre parole, una città moderna di quarantamila abitanti, dediti alla caccia, alla pesca, alla produzione di ceramica, principale attività industriale del luogo, scomparsi nel nulla, finiti carbonizzati, come si è dedotto dai soli quarantatré resti ritrovati.


Con gli abitanti di Mohenjo Daro è scomparsa misteriosamente anche una testina in terracotta, senza volto, con una strana "finestrella all'altezza degli occhi", della quale rimangono solo le foto scattate da Davemport e Vincenti, indicata come un "elmo da guerra".


Curiosità: non è stato rinvenuto nessun elmo di quel tipo.


I primi insediamenti nel bacino dell'Indo risalirebbero a 9.000 anni fa. Secondo le stime vi erano oltre 2500 centri abitati. Principale risorsa i manufatti ceramici di eccezionale qualità tecnologica, con contenuto siliceo medio-alto.


A Mohenjo Daro, che si vuole distrutta dallo scoppio di due delle numerose fornaci presenti, a causa di una eccessiva temperatura raggiunta nella camera di combustione, evidenziata, secondo la scienza ufficiale, da blocchi parzialmente fusi e migliaia di gocce nerastre di argilla vetrificata. Gli scavi sono vietati, si dice, per "esigenze conservative".

David Davemport e Ettore Vincenti, autori di "2000 a.C. Distruzione Atomica", fecero esaminare alcuni detriti anneriti raccolti nella zona considerata l'epicentro dell'esplosione, campioni di vasi e mattoni, bracciali vetrificati.


Dalle analisi, effettuate dall'Istituto di Mineralogia dell'Università di Roma, l'argilla risultò, come già accennato precedentemente, sottoposta a una temperatura di oltre 1500 gradi per qualche frazione di secondo.

Questo avrebbe causato l'inizio di una fusione subito interrotta, escludendo che il calore di una fornace, tanto meno altre calamità naturali, possano produrre un tale effetto. I risultati vennero confermati dal Prof. Bruno Di Sabatino, vulcanologo dell'Istituto di Mineralogia e Petrografia, col quale collaborarono il Prof. Amuleto Flamini e il Dr. Giampaolo Ciriaco.

Ulteriore prova dell'assenza di fenomeni vulcanici e sismici, i pozzi di acqua rimasti al loro posto. Secondo Davemport, esperto in sanscrito, il Ramayana fornirebbe la giusta chiave di lettura.


Vi è descritta la vicenda di Ravana di Lanka che costringe il fratello Dhanada a ritirarsi sull'Himalaia impadronendosi del regno. Ravana lo insegue, lo vince e fa suo il veicolo volante, il prestigioso "Pushpaka vimana". Si parla di un velivolo equipaggiato con pilastri d'oro, porte di smeraldo, veloce come il pensiero, costruito su ordine di Brahma. A bordo di questo vimana, Ravana, discese dal monte Kailash.

Nella parte del poema chiamata "Uttara Kanda", nel capitolo 23, è scritto:

"Vedendo il loro esercito abbattuto in volo, i figli di Varuna, sopraffatti dalla pioggia di missili, tentarono di interrompere il combattimento. Stavano fuggendo sottoterra (3) quando videro Ravana sul suo Pushpaka Vimana. Cambiarono repentinamente rotta e si slanciarono verso il cielo con la loro flotta di macchine volanti. Una terribile lotta scoppiò nell'aria."
Ravana rapisce Sita, figlia di Jawata re della città di Mithila e sposa di Rama, il quale dopo un'aspra battaglia ucciderà Ravana e libererà Sita.

Nel capitolo 88 dell'Uttara Kanda si legge la reazione di Re Jawata:
"Arderà Indra il reame di quel malvagio con una pioggia di polvere soverchiante. È giunta l'ora dello sterminio di quell'insano e dei suoi seguaci."
Quindi il dardo di Indra distrugge la roccaforte di Ravana.

Ma il suo regno, posto fra i monti Vindhya e Saivala, gli odierni Aravalli e Sulaiman, corrisponde a Lanka, parola che significa isola, cioè Mohenjo Daro situata proprio su di un isola del fiume Indo. Conclusioni audaci, ma più attendibili di qualsiasi altra, che si riallacciano alle storie sui vimana, comune mezzo di trasporto del popolo venuto dalle stelle, narrate nel Ramayana e nel Mahabharata.

Con tale tecnologia non si può escludere l'uso di armi atomiche, né che proprio l'uso di tale energia sia la causa della scomparsa di "Lanka". Altri popoli ci narrano vicende simili. Dalla Cina giungono storie di eventi che ricordano quelli descritti nei due libri sacri Indiani. Si dice che la Cina fu governata da re divini per diciottomila anni, fatto in comune con l'India e l'Egitto. Si racconta di un'epoca nella quale uomini e animali vivevano in armonia in un giardino che ricorda tanto il Paradiso.


Nel Shan-hai-ching, un libro sacro, si parla dei "Miao", una razza umana dotata di ali che nel 2400 a.C. vennero a diverbio col Signore delle Altezze e persero la capacità di volare.


Si parla anche di quando il Signore Chang-ti, vedendo che la razza degli Atlantidi aveva perduto ogni virtù, ordinò a due Dhyani (4), Chang e Li, di interrompere ogni contatto fra cielo e terra. Vi si trova la storia dei dieci soli e dell'arciere Yi; ma vi è descritta la vicenda di quattro giganti celesti che, alla testa di centomila guerrieri, corrono in aiuto di Shang impegnato a difendere la montagna di Hsich'i. Il gigante più anziano era alto sette metri e aveva una spada detta "nuvola blu".


Quando egli la sguainava spuntava "un vento nero dal quale uscivano migliaia di lance che colpivano il nemico polverizzandolo".

Dietro al vento "una ruota di fuoco riempiva l'aria di decine di migliaia di serpenti di fuoco dorato", dal suolo si alzava un fumo denso che bruciava e accecava le persone. Nel corso della lettura troveremo anche gli Immortali a cavallo di dragoni e unicorni, forse velivoli; conosceremo il Vecchio Immortale del sud che proveniente da Agarthi e dona a Tzu-Ya, eroe della storia, un'arma "che brucia il suolo e produce luce", con la quale potrà conquistare il mondo.

Storie uguali a quelle dell'India, dei Celti della tribù dei Tuatha de Danan, che si verificano in ogni parte della terra nello stesso periodo e richiamano alla mente l'uso di armi atomiche, laser e marchingegni volanti.


Rama dopo aver vinto Ravana, vola verso la città di Ahyodhya col Pushpaka Vimana vinto al nemico, per ricondurre Sita a casa. La descrizione del viaggio testimonia che Rama è abituato a volare. Dall'alto riconosce i luoghi sorvolati e li elenca a Sita. Menziona ancora il Kailash e la sua forma piramidale, indicandolo come il luogo "visitato da uomini del cielo" e usato come punto di riferimento in conseguenza della sua forma.

Coincidenza si parli del Monte Kailash, considerato sacro tutt'oggi e della sua forma piramidale, e che il nome Sita sia lo stesso che si attribuisce al fiume di Shambhala?


La storia conferma inoltre che Mohenjo Daro è Lanka:

"Vedi come Lanka è stata costruita da Vishvakarma sulla cima della rocca a tre punte che somiglia al picco del Kailash (5). Guarda il campo di battaglia coperto da un fango di carne e sangue, laggiù è stata fatta una grande carneficina di Titani (6).

Laggiù giace il feroce Ravana. (...) Ora abbiamo raggiunto KishKindha con i suoi magnifici boschi, in quel luogo ho ucciso Bali."
Rama è esperto nella geografia aerea di un territorio vasto ben duemila chilometri.

Chi ha scritto il Ramayana come poteva conoscere tutto questo? L'autore era un esperto del volo e in possesso di carte geografiche dell'intera regione? Secondo Davemport,

"gli antichi autori hanno sicuramente visto e sono stati testimoni dei loro effetti; ma, in conseguenza della povertà di linguaggio, o mancanza dei termini necessari, l'immagine che ne danno è carente dal punto di vista tecnico-descrittivo".
Questo è già capitato quando i pellerossa sono entrati in contatto con la tecnologia dei bianchi.

Abbiamo avuto "le canne tonanti", i "lunghi coltelli", il "cavallo di ferro". Gli Ariani hanno visto la "freccia intelligente", "l'uccello abitato", la "freccia che segue i suoni", "l'arma del sonno". È il Vymanika Shastra che fornisce i dati tecnici per ottenere un oggetto volante del tutto simile alle capsule spaziali.

Appare evidente che l'autore di questo libro ha potuto osservare a lungo i "Vimana", tanto da fornire accurate informazioni. Il Dr. Josyer, direttore dell'Accademia Internazionale di Ricerche Sanscrite di Misore, ci fornisce queste informazioni. Secondo Davemport e Vincenti, il ritrovamento può contribuire a far avanzare la nostra tecnologia.


Altre prove in favore della tesi di Vincenti e Davemport, purtroppo scomparsi prematuramente, vengono fornite dagli studi del Dr. Roy direttore dell'Istituto di Cronologia di Nuova Delhi.

Dalle indagini storico-archeologiche, risulta che effettivamente Mohenjo Daro è la Lanka di Dasagriva, il Ravana menzionato nel Ramayana. Il poema è stato infatti ordito intorno alla conquista di Mohenjo avvenuta quattromila anni fa. Il Dr. Roy identifica il moderno Kalat nella regione che a quel tempo era conosciuta come Kishkindha. Un punto dell'Indo ove il linguaggio, detto Telogu, era una elaborazione di quello della famiglia Dravinian.


Nella guerra Deva Asura, tale Dasatha combatte contro Timidhwaja, appartenente alla razza dei Rakshasa e alleato di Shambara, il cui emblema, un Timi (balena), fa presupporre vivesse vicino al mare, forse nel Makran dove viveva anche Ravana. Inoltre "ravana" era un titolo, un semplice appellativo, non un nome proprio, il nobile ucciso da Rama era Dasagriva, conosciuto come Signore di Lanka, cioè Ravana di Lanka.


Dai dati storici veniamo a sapere che Dasagriva Ravana era amico del re di Kishkinda. Il regno di Ravana era nel Sind, e Mohenjo Daro ne era la capitale.


Quindi l'impero Harappa aveva al nord la cultura della razza Danava col suo centro a Hariupia; al sud i Rakshasa con Mohenjo capitale, conosciuta come "l'isola", ossia Lanka in lingua Telogu,
"una stretta striscia di terra fra il letto principale dell'Indo e la curva ovest del fiume Nara, soggetta ad alluvioni fino a quando un lungo terrapieno fu in grado di prevenirle".
Ci sono resti del terrapieno preistorico per un miglio.

Sono evidenti anche le successive alluvioni con la conseguente deposizione di strati di sedimenti di sabbia che hanno alzato il piano di trenta piedi. Gli studi idrografici condotti nella regione del Sind hanno dimostrato che l'Indo ha allagato l'Ovest di Mohenjo Daro nel 2000 a.C.. Ulteriore dimostrazione il gigantesco terrapieno anti alluvione che lo circonda.

A quel tempo, durante le alluvioni, doveva apparire come veniva descritta, la Swarna Lanka: l'isola d'oro. Anche le battaglie del Mahabharata sarebbero realmente avvenute. Secondo Roy nel 1424 a.C. La conferma dal Mahabharata che apparterrebbe all'età del Rame, poiché l'antichissima parola vedica "ayas" significa "rame".


Il Dr. Roy afferma che Vyasa usò la parola "ayasa bhima", non "Iron Bhima". Gli scavi avrebbero rivelato che l'ultima cultura Harappa e quella Kuru, sono state coesistenti, e il Dr.Roy ha dimostrato che queste due culture appartenevano all'età del Rame, quindi all'età Vedica. Il materiale astronomico del Rig Veda rivela che nel 3070 a.C. regnava re Manu; nel 2000 a.C. Rama e Dasaratha. Nel 2005 a. C. avvenne la disfatta e il sacco di Lassa collocando così Divodasa nel 2005 a.C.


A quel tempo nel paese vivevano diversi popoli. Vi erano i Devas, gli ariani vedici, adoratori di Indra, e gli Asura, fautori di feroci guerre intorno al 2000 a.C., che valsero loro l'appellativo di malvagi. Un fatto storico che partì dal regno di Divodasa nel 2030 a.C., e finì con la grande battaglia "Dasa Rajana". Abbiamo così la conferma che Dasaratha prende parte attiva alla guerra schierandosi con Divodasa contro Timidhwaja, e questo fatto dimostra che la battaglia si svolse fra due armate umane.


I Danavas erano comandati da Shambara, re di Hariyupia, figlio di Kulitara, che visse e governò intorno al 2000 a.C.. Divodasa mosse una guerra contro di lui, lo uccise, e Hariyupia (ossia Harappa) fu conquistata. L'intera regione Asura fece un’offerta per riscattare la città, ma in un’orribile battaglia sul fiume Parushni (oggi Ravi), Sudasa li respinse. Si tratta di una battaglia nota come quella dei dieci Re (1930 a.C.). I dati storici forniscono anche la data di progettazione della città di Harappa, il 2550 a.C.


Nella regione Harappa vi era una civiltà commerciale per eccellenza, popolata anche dai Nagas e dai Janas anch’essi ottimi commercianti e industriali. Nel poema si trovano riferimenti anche ai Vanaras e al loro grande re Bali, alleato di Ravana, in tal modo tutto prende forma e trova le giuste corrispondenze storiche; non si può parlare più di coincidenze.


Dobbiamo considerare la possibilità che siano state impiegate tecnologie avanzate, e l'uso di armi atomiche, quattromila anni fa (e non solo in India). Un’indagine, seppur limitata nella sua fattibilità, nella zona potrebbe fornire altre prove. Basterebbe verificare l'aumento dei decessi in seguito a tumore, quanti fra gli addetti agli scavi; quante le registrazioni di oggetti aventi tracce radioattive.


Vi sono ancora aree con tracce di radioattività, che, a quanto si racconta, molti, tuttora, eviterebbero per "non essere uccisi dagli spiriti cattivi"?


Attraverso la consultazione, pur sempre limitata, di documenti e registri anagrafici o mortuari; qualcosa, se si vuole, credo si possa accertare.






                                                         articolo di Mauro Paoletti

1. La pianta del cotone, proveniente dalle Americhe, fu introdotta nel Mediterraneo solo nel 300 a.C.
2. Secondo Gobrovski, autore di "Enigmi dell'Antichità", cinquanta volte più della normalità.
3. Davemport e Vincenti si chiesero se si trattava di rifugi sotterranei.
4. Appellativo con il quale si indicano gli Dei nella dottrina esoterica come vedremo più avanti.
5. Questo ricorda la città delle tre alture e le sue storie.
6. In tal modo erano indicati gli abitanti di Lanka.

sabato 3 giugno 2017

FLASH DRAGON UN SUPER ROBOT TUTTO ITALIANO

Un articolo decisamente off topic, per il monolito ma sicuramente interessante per chi ha avuto un'infanzia tra gli anni 70/80. Infatti, mi rivolgo a quella generazione cresciuta a "robottoni", cioè, con i cartoni giapponesi creati da Go Nagai. 








Tutti abbiamo sognato di avere il nostro super robot personale e alcuni, come il sottoscritto, che se la cavavano bene col disegno, si creavano il proprio robot personale. Così, nel 1980, creai il mio robottone e lo chiamai Flash Dragon. Ne feci delle storie a fumetti che, sia pure con un tratto infantile, mi procurarono a scuola un discreto gruppetto di fan. Crescendo, sono diventato un fumettista e un illustratore ma, l'epoca dei super robot era ormai finita. Oggi grazie a un nostalgico revival anni 80, sono ritornati alla ribalta anche i mitici robottoni in forma di collane di DVD, collezioni di statuette, fascicoli settimanali, modellini ecc. Per tanto, mi è sembrato giusto, se non doveroso, rispolverare questo mio personaggio e dargli nuova vita. Grazie alla passione per il papercraft (modellismo di cartone) e con l'aiuto di un amico progettista di paper models, sono riuscito ad ottenere anche un modello in scala 1:100 del mio personaggio. 
In vista di un mio probabile ritorno al fumetto, proprio grazie a Flash Dragon, voglio presentarvi in anteprima le immagini e alcune caratteristiche del personaggio.

Caratteristiche salienti
Genere: super robot da combattimento
Nome: Flash Dragon
Provenienza: (niente spoiler)
Altezza: 40m
Pilotabile: si, tramite una navicella agganciabile alla testa (come vuole la tradizione) chiamata "Spettro del Drago"
Può volare: grazie ad un jet-pack fissato sulla schiena, non separabile.
Trasformabile: no
Armi:
Raggio Alfa
Lama di fuoco
Raggi fotonici
Sfera del drago
Croci del sud
Artigli del drago
Fulmine del drago



Come si può vedere dall'illustrazione, Flash Dragon è in puro stile Nagai, tuttavia presenta, rispetto ai predecessori a cui si ispira (Grandizer, Great Mazinger, Jeeg) alcune caratteristiche uniche. Non lancia i pugni, non ha un supporto agganciabile per il volo. Ma ha ugualmente un discreto bagaglio di "armi spaziali".

Come mostra questa illustrazione è provvisto di un' alabarda chiamata "lama di fuoco" creata con le due lance presenti sul torace. Queste lance, quando sono fisse al torace erogano un potente raggio termico, il "raggio alfa"
Un'altra caratteristica unica, sono le stelle presenti sulle braccia. Sono lame lanciabili, "croci del sud", che all'occorrenza fungono anche come artigli a scatto "artigli del drago".



Non voglio svelare tutto riguardo al personaggio e alla sua storia ma potrete avere un indizio grazie ad una leggenda appositamente  creata, ispirata alla tradizione del popolo Comanche.


A questo punto, credo di aver svelato anche troppo, vi lascio alla prima copertina e alle foto del modello in scala.
                                                                              O. Felace







                                                           
                                                           

domenica 21 maggio 2017

La fine del mondo c’è gia stata: lo svela la stele dell’Avvoltoio

Trovata la prova che una cometa colpì la Terra nell’11.000 a.C. La scoperta dell’università di Edimburgo a Gobekli Tepe, in Turchia, considerata il più antico osservatorio astronomico dell’umanità.


Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni.
Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’Università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo.
Una stele in particolare, quella chiamata «dell’avvoltoio» ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.
La stele è importante perché conferma eventi che già conoscevamo, come il periodo glaciale noto come Dryas recente (dal nome di un fiore della tundra) e l’anomalia dell’iridio osservata in Nord America, risalente all’11-10.000 a.C.: l’iridio è poco presente nel suolo e quando in uno strato geologico se ne trova molto di più, vuol dire che un meteorite o una cometa lo hanno portato sulla Terra, come avvenne nell’estinzione dei dinosauri. Per il prof. Martin Sweatman, direttore della ricerca pubblicata su Mediterranean Archaeology, «questa scoperta, insieme all’anomalia dell’iridio, chiude il caso in favore dell’impatto di una serie di comete».
Il tempio
Gobekli Tepe è il tempio più antico dell’umanità e pare fosse dedicato all’osservazione delle comete e dei meteoriti. I bassorilievi che narrano la catastrofe dell’11.000 a.C. erano tenuti in grande considerazione e conservati con cura, come se fosse importante non perderne la memoria. Inspiegabilmente, in epoca preistorica, il sito venne abbandonato e completamente ricoperto di terra, perché nessuno lo potesse individuare. Archeologi e antropologi collocano nel Dryas recente l’inizio della civiltà umana, con le prime coltivazioni e i primi villaggi del Neolitico.
Ma per altri ricercatori, che il mondo accademico non tiene in alcuna considerazione, la caduta delle comete ha causato la fine di una civiltà che già esisteva sulla Terra e ha costretto gli esseri umani sopravvissuti a un nuovo e faticosissimo inizio.
Graham Hancock, nato a Edimburgo, ha scritto molti libri su questo tema e nell’ultimo, «Maghi degli dei: la saggezza dimenticata delle civiltà perdute», ha sostenuto proprio la tesi che intorno al 12.000 a.C. l’impatto di una cometa abbia posto fine a una società molto evoluta, che ha lasciato tracce di sé nella perfezione delle piramidi di Giza e in altri inspiegabili monumenti ciclopici sparsi per il pianeta. Se l’asse della Terra si è davvero spostato a causa di quella catastrofe, forse l’Antartide era all’epoca libera da ghiacci e nasconde segreti che non tarderemo a scoprire, vista la progressione del riscaldamento globale.
– I grandi misteri
Hancock ha visitato il sito di Gobekli Tepe, giudicandolo uno dei grandi misteri dell’antichità. Se uno sciame di comete era in arrivo sulla Terra, gli astronomi del tempio le hanno sicuramente individuate in anticipo e forse quelle scie luminose arrivate nel Sistema solare interno sono state una presenza costante nel cielo per molti anni prima del loro devastante impatto. Forse da allora ci è stata tramandata la convinzione che tutte le comete (ma per lo meno bisogna salvare quella di Natale) portino sfortuna e siano messaggere di lutti e devastazioni.
La teoria che grandi civiltà del passato siano state distrutte da eventi catastrofici è suggestiva e spiegherebbe le grandi costruzioni le cui rovine sono state trovate sui fondali dell’Oceano, dove Platone collocava Atlantide, così come la «piramide» sommersa che si trova vicino all’isola di Yonaguni, in Giappone. Ma c’è da sperare che i cultori delle civiltà perdute non abbiano ragione: gli sciami di comete sono infatti periodici e secondo Hancock quello descritto nella stele di Gobekli Tepe potrebbe tornare nell’arco di qualche decennio. Meglio che l’autorevole e più rassicurante mondo accademico si affretti a rimettere ogni pietra, e ogni data, al suo posto.
                                                                                                                        Vittorio Sabadin
FONTE: lastampa.it


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